Fallout, la recensione: il post-nucleare come il vecchio West. O di come esorcizzare la paura (in salsa splatter)

Jonathan Nolan trasporta il bizzarro mondo del videogioco Bethesda sul piccolo schermo, realizzando una serie mastodontica e appassionante, che strizza l'occhio agli appassionati e incuriosisce i profani (al ritmo di jazz)

Musica anni Cinquanta, un design retro-futuristico e una guerra (fredda). C’è una festa di compleanno di bambini, una situazione gioiosa ma carica di tensione tra gli adulti, una corda di violino tesa fino alla rottura, alla caduta – quindi – delle prime bombe nucleari su suolo statunitense. La prima scena della nuova serie televisiva tratta dalla saga di videogiochi di Fallout incarna con grande stile la paura, il sarcasmo e la crudezza del mondo inventato dallo studio di sviluppo Interplay, e poi acquistato e continuato da Bethesda.

Dopo una guerra atomica, la Terra è ridotta in cenere. Il suolo è mutato a causa delle radiazioni, così come l’atmosfera e gli esseri umani che sono riusciti a sopravvivere. Ma chi poteva permettersi un posto nei giganteschi rifugi della compagnia Vault-Tec ha continuato a vivere sottoterra, con delle regole e un piano, quello di ripopolare la superficie, un giorno.

Generazioni hanno fatto spazio ad altre, e gli abitanti dei Vault, dopo 300 anni dallo scoppio delle bombe, non hanno la più pallida idea di cosa ci sia oltre le immense porte metalliche dei loro rifugi. La protagonista – interpretata da Ella Purnell – si renderà presto conto che il mondo di regole e di comunità in cui ha vissuto è un paradiso felice che nella Zona Contaminata non esiste.

Fallout, Hollywood e maccartismo

Il tempo è andato avanti, ma le lancette sembrano essere tornate al vecchio West, tra cowboy, gang criminali e zero regole, ma con qualche bizzarra aggiunta: animali mutati, strani ghoul e radiazioni mortali. Intanto, altri poteri cercano di prendere il controllo della Zona Contaminata, tra questi anche i militaristi della Confraternita d’Acciaio, con le loro armature atomiche e il loro cameratismo fascistoide. Ed è così che si incontra un altro dei protagonisti di questa serie, il giovane Maximus (Aaron Moten).

Dopo un attacco al loro Vault, il numero 33, Hank MacLean (Kyle MacLachlan) viene rapito da dei pericolosi predoni. E la figlia, Lucy (Purnell), compie la pericolosa impresa di uscire dal rifugio atomico per andare alla ricerca del padre, entrando a gamba tesa – e a sua insaputa – in una missione che plasmerà i destini degli abitanti della Zona Contaminata. E mentre la regia fatica un po’ ad ingranare, e gli effetti visivi in più occasioni risultano posticci, il risultato finale è però una serie televisiva mastodontica e appassionante.

Il mondo post-apocalittico di Bethesda vive nella sua estetica di colori spenti e praterie desolate, con tutte le reminiscenze del boom economico nordamericano e con la stessa divisione politica antecedente alla guerra, mostrata in alcune scene flashback tra l’ascesa di Hollywood, il maccartismo e la nascita della corporate America.

Il videogioco sul piccolo schermo

L’adattamento del videogioco, uscito per la prima volta nel 1997 e diventato ben presto un grande classico, è stato portato sul piccolo schermo non soltanto tenendo in considerazione il mondo e la bizzarra ambientazione, ma inserendo una serie di accorgimenti che strizzano l’occhio agli appassionati del videogame, senza però risultare incomprensibili.

Una delle “meccaniche” di gioco più famosa in è infatti lo SPAV, un sistema tecnologico – inserito in quell’ingombrante bracciale chiamato Pip-Boy – con il quale il ritmo dell’azione rallenta improvvisamente, e il nemico viene mostrato con una scannerizzazione che ne risalta i punti deboli.

Questo sistema, inizialmente pensato per un gioco di ruolo occidentale vecchia scuola (con turni e statistiche ben stabilite), è stato mantenuto anche nei capitoli successivi della serie, anche adattato alle esigenze di rendere il franchise più moderno e veloce. Una volta deciso quale parte del corpo attaccare, ecco che una scena a rallentatore mostra i proiettili che vengono esplosi e che colpiscono i nemici in scene splatter surreali e tragicomiche.

Nella serie, lo SPAV, non viene mostrato esattamente come nel videogioco (e menomale). Ma alcune sequenze, con spari a rallenty e arti che volano a destra e sinistra, mostrano l’attenzione di Jonathan Nolan e della produzione nel risaltare alcune peculiarità del materiale originale, traducendo un linguaggio interattivo a uno non interattivo, e riuscendo perfettamente nell’impresa.

Una scena di Fallout

Una scena di Fallout

Il buono, il brutto e il cattivo

Difficile non pensare, nel corso degli otto episodi, alle somiglianze registiche di Fallout con gli spaghetti western di Sergio Leone. Ed è altresì difficile non pensare a quanto questa storia, nel clima politico contemporaneo tra guerre alle porte dell’Europa e in Medio Oriente, possa essere un veicolo per esorcizzare la paura ferale dell’essere umano di estinguersi con le sue stesse mani.

E il successo di critica e di pubblico sono il sintomo che alcune storie dei videogiochi hanno colto sottigliezze della società che solo adesso – e in un diverso formato – stanno esprimendo nuova forza. La serie Hbo di The Last of Us, videogioco sviluppato da Naughty Dog e ambientato durante un’epidemia zombie, è stata una grande scommessa per un mondo che usciva dal traumatico periodo del Covid.

Ma la storia di Joel ed Ellie, anch’essa riprendendo atmosfere da mito del West, prova a trasmettere una qualche speranza: non tutto è perduto, anche di fronte a una catastrofe. Fallout lo fa con una dose di sarcasmo e critica: un senso dell’umorismo difficile da ritrovare in una desolazione post-atomica.

Le avventure della Zona Contaminata sono magnifiche, e come la mascotte della Vault-Tec mostra il pollice in su (per ragioni diverse e meno divertenti), la serie lascia esattamente con lo stesso sorriso di compiacimento e con una storia ricca di spunti di riflessione, perfetta per gli appassionati e accessibile anche a chi non conosce questo surreale universo post-atomico. Un pollice in su, ampiamente meritato.