Che bella serie Ripley. Una serie come non se ne vedevano da tempo. E proprio da un altro tempo proviene. Da un passato in cui non esiste il binge watching, in cui lo spettatore può perdersi in un respiro tra una puntata e l’altra. Non l’ossessione di dover andare per forza avanti, non subito, non compulsivamente.
E non perché non si abbia voglia di continuare, bensì perché ci si sente talmente soddisfatti e pieni ad ogni fine episodio, che darsi un momento per chiudere Netflix, aspettare, riflettere su ciò che si è visto e far montare dentro il desiderio di andare avanti, diventa parte stessa del processo di visione.
La storia, in fondo, la conosciamo tutti. Lo show è basato sul famoso libro di Patricia Highsmith Il talento di Mr. Ripley. Primo di una pentalogia di romanzi i cui quattro successivi sono meno conosciuti rispetto al capostipite del 1955, e che potrebbe quasi azzardare a diventare finalmente realtà sul piccolo schermo, se l’adattamento di Steven Zaillian per Netflix dovesse conquistare.
Una versione a episodi di un racconto che ricordiamo per la trasposizione cinematografica del 1956 con Alain Delon, Delitto in pieno sole, ma ancor più entrata nell’immaginario nel 1999 per i colori caldi, il tono assolato e la fotografia sgranata e gialla del film con Jude Law, Matt Damon e Gwyneth Paltrow e la regia di Anthony Minghella.
Ripley, elegante e raffinato
Un trasferimento dalla carta stampata alla messinscena lontano dall’immaginario da cartolina della pellicola uscita sul finire degli anni novanta. Eppure un’estetica altrettanto d’impatto, per quanto distante ed opposta. Gelida in un bianco e nero luminoso, brillante, come la scrittura del premio Oscar per Schindler’s List – e candidato per altre quattro volte con Risvegli, L’arte di vincere, Gangs of New York e The Irishman.
Uno show che architetta meglio del suo protagonista le svolte irrazionali e violente del sociopatico Ripley, e che ne restituisce la virulenza, il distacco e la silente follia con una grazia che affascina, come ciò che in fondo non si riesce mai a comprendere fino alla fine. Elegante e raffinato, il prodotto Netflix sa che deve concepire al meglio le svolte psicologiche della storia. Mute, impercettibili. Visibili soltanto quando Tom Ripley si guarda allo specchio, spessissimo, proprio per restituire le sue emozioni e i micro-cambiamenti.
La storia non ha fretta di convincere il pubblico a farsi guardare, il che la rende sfidante per una serialità che ha ingozzato e sfinito, che ha detto che un racconto bisogna vederlo tutto e farlo immediatamente. Merito di una sceneggiatura che, finalmente, non è più a servizio di una scatola (la piattaforma), ma che piega il contenitore alla propria volontà, non scegliendo i compromessi.
Il miracolo del “prendersi tempo”
La natura classica, il ritorno alle “origini” della serie, è radicato già nella prima puntata di Ripley. Se per qualsiasi altro show Netflix (e oltre) il primo episodio sarebbe stato incentrato solamente sull’indagine della personalità del protagonista, sulla spiegazione di chi è, cosa fa nella vita, perché lo fa e solo a fine puntata si sarebbe poi dato l’input per l’inizio del suo viaggio, Ripley cambia le direttive.
Nella presentazione del truffaldino Thomas, la serie ne tratteggia a grandi linee il carattere – per poi approfondirlo successivamente – e lo conduce alla svolta della sua vita, andare a riprendere Dickie Greenleaf in Italia per conto della famiglia. E non solo l’uomo arriva nel bel paese, ma l’episodio fa vedere anche l’incontro tra i personaggi, preparando gli scacchi per la partita a venire.
Ripley è densa e non nasconde la sua dovizia. È compatta, di una consistenza corposa, dove ogni scena ha più scene dentro, i dettagli sono sparsi per ricostruire il puzzle da soli, e in cui l’occhio deve stare molto attento se vuole cogliere con zelo i piccoli accenni, le perversioni celate, i non detti che vogliono dire tutto all’interno della storia.
Si salgono rampe, si girano paesini, si visita Roma e si è a caccia di capolavori di Caravaggio. Si prende tempo. E in questo non farsi correre dietro dall’ossessione del dover affabulare con prontezza lo spettatore, lo show lo intriga al punto da non farsi lasciare.
È come l’attrazione magnetica che Dickie prova per Tom. Non lo vuole particolarmente nei paraggi, sa che c’è qualcosa che non va in quell’uomo che dice di essere un suo amico alla lontana, ha un’ambiguità che lo turba e lo insospettisce. Eppure non lo manda via, non vuole farlo.
Italia, teatro marmoreo per Netflix
Gli occhi dello spettatore sono tutti puntati su Ripley. Come gli sguardi interrogativi e accusatori che circondano il protagonista. È esaltante. Nonostante il personaggio pensi di poterla fare franca, le occhiate che gli lancia chi ha attorno sono investigative e inquisitorie.
Chissà se loro sanno. Chissà se percepiamo gli atteggiamenti e le espressioni degli altri nel modo in cui Tom se li sente addosso.
È indecifrabile Andrew Scott, trascina i corpi morti che si lascia dietro e sostiene intere puntate da solo, con la serie che decide che un’azione basta per riempire un intero episodio, realizzando modelli come l’esemplare “terzo capitolo” focalizzato sulla barca (anche lui, l’episodio, intenzionato a prendersi tutto il tempo necessario).
I piani di Tom Ripley si delineano nella cornice di un’Italia marmorea, fatta di scale in pietra, di caffè all’angolo, di vie notturne. Non più biglietto da visita per i turisti, bensì teatro. Fatto di ombre e di chiari di luce. Di maschere che, come Tom Ripley, sono pronte a cambiare continuamente.
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