“Never clip my wings”. Ce l’aveva tatuata sulla pelle questa frase Amy Winehouse. Incastonata tra un ramoscello in fiore e un uccellino intento a cantare. “Non tarparmi mai le ali”. Un omaggio alla sua Ava, canarino battezzato così in onore della leggendaria attrice di Hollywood, alla quale dopo la sua morte dedicò l’omonima canzone contenuta in Frank, disco d’esordio del 2003. E di canarino ce n’è uno anche in Back to Black, biopic diretto da Sam Taylor-Johnson in sala dal 18 aprile con Universal Pictures.
L’eredità dell’amata nonna Cynthia (oltre che metafora di creatura tenuta in gabbia, nel suo caso quella dorata dei primi posti in classifica e delle dipendenze). Punto di riferimento musicale e di stile, amore incondizionato e confidente. La stessa Cynthia tatuata con le fattezze di una pin-up sul braccio.
Back to Black e la versione di Marisa Abela
Perché la sua vita la ragazza di Camden con i capelli cotonati come Ronnie Spector e l’eyeliner da diva del cinema in bianco e nero se l’era impressa sul corpo. La “daddy’s girl” diventata poi la ragazza di Blake. Una relazione assoluta e malata che ispirerà Back to Black, secondo e ultimo disco in studio destinato a consegnarla al mito. Ma quella vita fatta di voragini e insicurezze Winehouse l’ha raccontata anche nelle sue canzoni, piccoli film di serate finite a dormire sul pavimento della cucina con il trucco colato per le lacrime versate. Magari con una bottiglia a farle compagnia. La stessa che, dopo mesi di sobrietà, se la porterà via una notte di luglio del 2011.
Condensato tra i primi anni Duemila e il successo planetario costellato con la vittoria di cinque Grammy per Back to Black, il film vede Marisa Abela (Industry e un piccolissimo ruolo come Teen Talk Barbie nel film di Greta Gerwig) prestare corpo e voce a Winehouse. È lei, infatti, a intonare i brani della cantautrice. Una scelta dettata dalla volontà di essere più autentici e onesti possibili come dichiarato dalla stessa interprete a THR Roma.
Un punto di vista interno
Ma sebbene Abela dimostri un talento attoriale e vocale evidente, il risultato è quello di assistere a una sorta di recita, un’imitazione perenne. Al pari di Rami Malek in Bohemian Rhapsody, anche l’attrice eccede in una mimica facciale e corporea che è più in linea con una puntata di uno di quegli show in cui vecchie glorie si travestono da altrettante star che con la capacità di catturare l’essenza di un personaggio unico come quello di Amy Winehouse.
Raccontato dal punto di vista della cantante di Rehab, il film è scritto da Matt Greenhalgh che aveva già collaborato con Sam Taylor-Johnson per rievocare l’adolescenza di John Lennon in Nowhere Boy. Lo sceneggiatore prende in prestito le parole e testi di Amy Winehouse e ci mostra la versione della storia dalla prospettiva interna della cantante. Così facendo Blake Fielder-Civil appare quasi come un giovane uomo saggio consapevole della tossicità della loro relazione e Mitch Winehouse, il padre della cantautrice fortemente criticato dall’opinione pubblica per non aver fatto di più per evitare il tragico epilogo della figlia, come troppo morbido per prendere una decisione difficile quanto necessaria.
Back to Black e i limiti del biopic
Chi ha seguito la parabola tormentata di Amy Winehouse e sofferto per la perdita della sua vita e talento finirà per storcere il naso. E non perché ci sia bisogno di puntare il dito contro un cattivo da incolpare – che nel film ha le sembianze delle droghe e dei paparazzi che seguivano e braccavano l’artista ovunque. Ma perché Back to Black è un film curatissimo nella ricostruzione – trucco, costumi, scenografie – ma respingente nei sentimenti. Nonostante l’eyeliner colato o le corse a perdifiato. Un biopic non dovrebbe essere (solo) attenzione ai dettagli esteriori – necessari se si sta raccontando la vita di un’artista la cui storia è stata così ben documentata, nel bene e nel male, come ci ha ricordato Amy di Asif Kapadia – ma tentativo di afferrarne l’essenza.
Un errore comune a tanti titoli di un genere più in voga che mai – nei prossimi mesi, tra i tanti, vedremo Michael dedicato al re del pop e A Complete Unknown su Bob Dylan – ma che raramente riesce davvero a fare centro. Negli ultimi dieci anni ci ha pensato l’inedito e semisconosciuto Blaze di Ethan Hawke dedicato all’altrettanto semisconosciuto (da noi) musicista folk country Blaze Foley.
Amy Winehouse: “I am jazz”
La stessa regia di Sam Taylor-Johnson rimane molto “classica”, senza concedersi particolari slanci o invettive. Eppure stiamo parlando di Amy Winehouse che, al pari delle Shangri-Las, il gruppo pop più melodrammatico e cinematografico della storia – andate ad ascoltare Leader of the Pack, Give Him a Great Big Kiss o Walking in the Sand – che la sceneggiatura vuole farci credere non conoscesse fino a quando non gliele ha fatte ascoltare Blake, ha disseminato i suoi brani di immagini che sarebbero potute essere d’ispirazione per un film anche visivamente più viscerale.
Amy Winehouse era esattamente come le sue maestre, Billy Holiday, Sarah Vaughan e Dinah Washington. Una voce arrivata da chissà dove e una personalità capace di far convivere abissi e sarcasmo pungente, armonia e ruvidezza. In una sequenza di Back to Black, la cantautrice afferma: “I am jazz”. E il jazz è improvvisazione, istinto, pancia, virtuosismi, dolore, estasi. Ma, soprattutto, libertà. “Never clip my wings”. Neanche con un biopic.
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