Marlon Brando è sempre lui. Anche dopo 100 anni, il mito non si scalfisce. Anzi, prende forma divina

Il 3 aprile del 1924 nasceva a Omaha, Nebraska, il più grande attore del dopoguerra. Espulso dall'esercito, al centro di tante, troppe polemiche politiche, ha saputo rendere grandi i film più diversi. Da Francis Ford Coppola a Gillo Pontecorvo, il racconto di una carriera meravigliosa e (in)dolente. Com'era questo ragazzo che ha fatto innamorare il mondo

Marlon Brando è sempre lui, canta Luciano Ligabue.

Ci sono sei possibili scale di notorietà, di occupazione militare dell’immaginario. La prima è che tutti conoscano il tuo nome. La seconda è che tutti conoscano il tuo nome e la tua faccia e sappiano abbinarli con naturalezza. La terza è che il tuo cognome si declini in un aggettivo. La quarta è che finisci dritto dritto in una canzone (Kevin Spacey e Caparezza, se non vogliamo citare il sommo), la quinta è che diano il tuo nome, quelli che ti amano, ai loro figli. La sesta è che solo pronunciando il tuo nome con un certo tono – Diego, Rocco, Francesco – si sappia già di chi parli, senza alcun dubbio.

La settima, sì, abbiamo mentito, ce n’è una settima, è che il tuo cognome diventi un nome proprio.

La settima bis è che in una famiglia che ha fatto la storia del cinema mondiale, i De Sica, il tuo cognome diventi il nome proprio bagnare dell’ultimo talentuoso rampollo, Brando De Sica appunto.

La carriera spericolata di Marlon Brando

Marlon Brando nasceva 100 anni fa e il cinema ancora non lo sapeva, ma non sarebbe stato più lo stesso. Per tanti motivi, tra cui il carisma invadente, sensuale, stordente, inquietante, lacerante di quest’uomo che era more than life, than cinema and than history. Uno che ha attraversato e segnato trent’anni di cinema così diversi tra loro, lasciando la sua impronta in epoche, poetiche e opere con una potenza inaudita. Che ha toccato il cielo ed è precipitato nella polvere per poi tornare più in alto di tutti e infine fregarsene, perché in fondo fare l’attore era una splendida malattia, cronica, ma anche un dettaglio del suo impegno militante in tantissime cause, dai nativi americani all’Unicef.

Negli anni ’50 diventa subito mito con Elia Kazan (Viva Zapata! e Fronte del Porto) e Mankiewicz (Giulio Cesare e Bulli e pupe) ma anche con Laszlo Benedek che gli regala Il selvaggio, soprannome che gli sarebbe rimasto attaccato per sempre.

Negli anni ’60 c’è di tutto: il suo primo e unico film da regista, I due volti della vendetta, western bizzarro e sottovalutato – non da Quentin Tarantino che lo considera tra i 10 film più rilevanti di sempre – e su cui un giorno andrà fatto un film (la regia venne rifiutata da molti, da Lumet a Kazan, dopo le dimissioni o il licenziamento, non è mai stato chiarito, di Stanley Kubrick e Sam Peckinpah, che poi usò il lavoro fatto con il divo per il suo Pat Garrett e Billy the Kid).

C’è pure un clamoroso flop, La contessa di Honk Kong, in cui è diretto da Charlie Chaplin. Troppo talento, forse, in un film solo.

Un'immagine del primo e unico film di Marlon Brando, I due volti della vendetta

Courtesy of Torino Film Festival

Il più innovativo, il più imitato

Nello stesso decennio c’è poi La caccia di Arthur Penn e pure Queimada di Gillo Pontecorvo: l’attore disse che quest’ultimo era stato uno dei cineasti più importanti per la sua storia professionale anche “se rischiammo d’ammazzarci”. Leggenda vuole che il regista girasse sul set con una pistola, pronto a difendersi da Brando.

Ha provato ogni linguaggio, ha innovato il modo di fare il suo lavoro riuscendo a portare la tecnica attoriale a livelli eccelsi, fino a far parlare di metodo Brando.

Provava un godimento quasi fisico a indossare con la sua sfrontata aria di sfida ogni abito cinematografico, lui che era al contempo John Wayne, Paul Newman e Peter Sellers.

Era scolpito nel granito di una fisionomia titanica ma aveva dei lineamenti eleganti, era capace di imprimere, con stratagemmi (l’ovatta nelle guance di Don Vito Corleone) o ostinate ed epiche battaglie con se stesso – per fare Kurtz si ritirò per due settimane con Coppola su una barca, in mezzo alle riprese di Apocalypse Now, per rileggere insieme e capire davvero Cuore di tenebra –  la sua fragile follia nelle storie altrui.

Non ci ha mai abbandonato il dubbio di quanto fosse lui a condizionare il regista per cucirgli addosso i personaggi o quanto invece fosse solo e semplicemente così ferocemente bravo da saper fare tutto. Coppola ne fece il cardine della sua poetica, sfidando la Paramount per riportarlo al cinema prima, sforando, e parecchio, con i tempi, per fare il suo capolavoro, poi.

L’impegno politico di Marlon Brando

Gli anni ’70 sono appunto gli anni di Coppola, da Il padrino al capolavoro Apocalypse Now – “l’orrore… l’orrore”, ancora adesso se pensiamo a una guerra e alla sua insensatezza devastante, pensiamo al colonnello -, ma anche i pochi minuti di Superman nella parte di Jor-El, padre di Kal-El, appunto, che gli varranno 19 milioni di dollari (3,7 di ingaggio, il resto grazie alla percentuale sull’incasso).

Marlon Brando in un fotogramma del film Queimada di Gillo Pontecorvo

Marlon Brando in un fotogramma del film Queimada di Gillo Pontecorvo

Cifra che gli permetterà di immaginare e poi produrre – nessun altro voleva farlo – una sua idea per la tv che rivoluzionerà l’immaginario del popolo americano e di una generazione: Radici. E qui c’è tutto il Brando politico, uno che manda una nativa americana a ritirare il suo Oscar perché possa parlare nel tempio del capitalismo e della propaganda hollywoodiana del genocidio su cui si fonda il sogno americano e che poi arriva fino a Kunta Kinte e all’altra feroce ingiustizia su cui si poggia il mito a stelle e strisce, la filiazione africana di un paese che ha pensato bene di ringraziare quel continente con lo schiavismo.

Un successo clamoroso, impensabile, che portò a un bis.

Il suo alfabeto morale partiva dalla A di attore, anzi su quella lettera si incentrava: ambientalismo, antirazzismo, animalismo, anticonformismo, ambizione.

C’è però in quegli anni ’70 di supereroi e New Hollywood, anche Ultimo Tango a Parigi, Bernardo Bertolucci, la sensualità (pre)potente che, chissà, probabilmente è diventata violenza (pare anche tra regista e protagonista, vi furono liti furiose), prevaricazione inaccettabile ma anche grande cinema, provocazione intellettuale e carnale.

Il corpo del cinema

Marlon Brando non è sintetizzabile, è stato l’anima ma ancora di più il corpo del cinema come Elvis lo è stato della musica: insopportabilmente sexy e popolare prima, sfatto, solitario, cupo alla fine, Ma sempre magnetico, persino quando Kurtz lo coglie nell’alba del disfacimento fisico ma gli bastano poche pose di sbieco e in penombra per mandare a casa tutti i colleghi, Martin Sheen (altro maestro) compreso. Così come il cinema, il giovane Marlon, lo conquista con un reduce paraplegico, ne Il mio corpo ti appartiene, lui che allora era atletico, testosteronico, muscolare.

Marlon Brando con Maria Schneider in L'ultimo tango a Parigi, di Bernardo Bertolucci (1972)

Marlon Brando con Maria Schneider in L’ultimo tango a Parigi, di Bernardo Bertolucci (1972)

Sempre alla ricerca del limite, figlio di quel metodo Stanislavskij che all’Actor’s Studio lo aveva conquistato, probabilmente condizionandone non solo la vita, ma l’esistenza. Quel corpo a teatro esplode, letteralmente, di vitalità e bellezza nello Stanley Kowalski di Un tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams, prima si fece notare nell’opera A flag is born, opera sulla nascita d’Israele di cui fu fervido sostenitore (lavorò al minimo sindacale per mandare all’Irgun quello che gli sarebbe spettato).

Il suo percorso creativo ed interpretativo lo ha visto toccare ogni possibile declinazione di quella nazione, di quella contraddizione chiamato paese, gli Stati Uniti d’America, di cui era simbolo e specchio, lui che dentro aveva sangue europeo ma veniva da Omaha, Nebraska, l’America profonda.

Il Diego Armando Maradona del cinema

È stato l’ultimo grande divo di un cinema classico e antico ma anche la prima star moderna di Hollywood, una sorta di Diego Armando Maradona del cinema – a pensarci bene ci sono parallelismi fisici e non solo tra i due, così machi e machisti, tanti figli e compagne, ma pure sempre dalla parte degli ultimi del mondo -, primo fra tutti ha compreso il suo valore nel mondo, in quanto attore e artista politico ma anche come merce, che ha sempre saputo vendere a peso d’oro, ma mai per avidità e sempre per ambizione. Si è fatto veicolo di messaggi di rottura, ma anche di grandi ricchezze godute e sprecate.

Lui uomo di lotta e di rabbia, ma anche anima di cristallo che reciterà sempre per rendere orgogliosa mamma Dorothy, non capirà gli anni ’80, vacui e distratti e che lo vedranno all’inizio di un lungo declino, fisico e in parte mentale – troppo edonismo, poco impegno, un po’ di attivismo che lui comunque coglierà al volo -; negli anni ’90 proverà a risorgere con il mal riuscito e stracult Il coraggioso di e con Johnny Depp per poi morire, vent’anni fa, di enfisema polmonare, il primo luglio 2024, dopo 80 anni di amori maschili e femminili appassionati e dolenti, lutti insopportabili (la morte della figlia Cheyenne su tutti), undici figli, 4 mogli, stravizi e un’incapacità di incasellarsi nel sistema, che appena ha potuto lo ha rifiutato.

Ma questo non ha scalfito un’icona che negli anni è divenuta divinità laica. E che anzi, forse, lo è sempre stata se anche i contemporanei come James Dean avevano fatto diventare un’ossessione l’emulazione per lui. E se ancora oggi nei sondaggi tra i teenager quel nome riecheggia tra quelli dei divi presenti. Se nella stanza di molti adolescenti campeggiano ancora e sempre locandine dei suoi film o sue foto d’epoca.

Perché ha ragione Ligabue, Marlon Brando è sempre lui. Anche dopo un secolo.