Paolo Ruffini: “Basta col cinema italiano che mette il coperchio sopra le emozioni”

"Rimpiango quando i comici come Nuti e Troisi non avevano paura di farti commuovere". Il regista, produttore e attore toscano racconta il suo nuovo film, Rido perché ti amo, in sala dal 6 luglio

Il sorriso stampato in volto di chi vede il cinema ancora come un gioco. Uno spettatore onnivoro, prima di essere un attore e un regista. Livornese classe ’78, Paolo Ruffini torna al cinema con una commedia romantica che rivendica i suoi lineamenti inusuali da fiaba. Si intitola Rido perché ti amo, uscirà nelle sale il 6 luglio distribuito da Medusa.

È la storia di Leopoldo (Nicola Nocella) e Amanda (Barbara Venturato), due bambini che si promettono amore eterno e che ritroviamo 25 anni dopo, ormai adulti, a pochi giorni dal matrimonio. Lui è un pasticcere celebre in tutto il mondo, lei è una coreografa di danza classica.

Intorno a loro un gruppo di personaggi che li osservano e li consigliano, li criticano e li spronano.

Il protagonista Nicola Nocella e buona parte del cast in una scena di Rido perché ti amo

Il protagonista Nicola Nocella e buona parte del cast in una scena di Rido perché ti amo

Paolo Ruffini, il film è ambientato in una piazza di provincia che è un palcoscenico, in cui ci sono negozianti che si affacciano in strada, abitanti sui balconi. Un’umanità varia che si interessa al proprio vicino. Una cosa che sembra quasi incredibile, oggi.

È davvero così. Nella nostra epoca manca una vocale. Noi siamo social, ma se aggiungessimo una “e” o una “i”, ritroveremmo un’umanità di cui forse abbiamo nostalgia. È un film molto sociale, come l’amore, che non va tanto di moda sui social, ma nel sociale sì. È proprio un film di piazza.

Ha detto amore. È possibile fare oggi un film sull’amore?

È una cosa trasgressiva, vero? Addirittura di genere sentimentale. È totalmente folle. Il film si pone una domanda: cosa potrebbe accadere se oggi ci trovassimo, da adulti, ad amare come facevamo da bambini? Cerchiamo di rispondere, di proiettare il nostro bambino interiore che, se ti guarda un po’ male, vuol dire che c’è qualcosa nella tua vita che non va. Se ti sorride, e ha voglia di abbracciarti, vuol dire che stai facendo un buon lavoro.

Il comico ha il ruolo sociale di custodire il proprio bambino interiore. Ridere oggi, poi, sembra un atto relegato all’infanzia.

È un’anomalia. Andando in giro per strada, è molto più facile trovare gente col broncio. Se ridi, uno si domanda: ma che cosa ride quello? Avviene semmai quando ti innamori. Molto spesso nella vita, quando mi trovavo di fronte a qualcuno che amavo, mi veniva da ridere. Perché mi accorgevo di essere felice. Perché? La risposta è il titolo del film, “rido perché ti amo”. È la sensazione di accorgersi di essere innamorati e quindi felici. È una cosa bella, senza iva, né tasse. È una commedia che vuole restituire il candore dell’infanzia e della risata.

Parlando di candore, il titolo potrebbe essere di un film di Nuti o di Troisi. Quanto è importante quel riferimento per lei? Quello di una commedia popolare e allo stesso tempo profonda e spesso malinconica?

Sono riferimenti vitali. Francesco Nuti aveva un incanto interiore, quel suo modo di sorridere che mi commuove solo a pensarci. Un modo di stringere gli occhi, con quel buchetto nel mento che non puoi riprodurre. I riferimenti a quel tipo di commedia lì sono importanti, perché era un momento in cui il cinema italiano non si vergognava di far commuovere il pubblico, cosa che non accade più. Per me è difficilissimo trovare oggi un film italiano in cui ho pianto o mi sono sganasciato dalle risate. Le emozioni, sì, ma con un coperchio sopra. Questo è un film che tira su il coperchio. Se ti vuoi commuovere, puoi farlo, e anche tanto.

Il protagonista è un pasticcere che lavora in quello che definisce un atelier e non una pasticceria, è ossessionato dalle dosi degli ingredienti, più che da quanto piacciono i suoi dolci. Non è che si riferisce ai registi che fanno i film per sé stessi, e non per il piacere del pubblico?

Esatto, sono quelli che si guardano l’ombelico. Oggi gli autori se la tirano molto più degli attori, è una cosa pazzesca. Ormai non si dice, vado a vedere il film “con”, ma vado a vedere il film “di”. Nel mio protagonista c’è l’atteggiamento vanaglorioso e un po’ smargiasso dell’autore che dice: ho fatto un’Opera. Ma si tratta di una torta. Come quelli che noi facciamo sono film. Delle cose semplici e inutili come i sogni. E come la libertà.

Nel film si ritaglia il ruolo del proprietario di un video noleggio impolverato e molto vintage.

Mi sento un progressista, ma a volte fa bene ricordarsi di quando il mondo era molto più facile, di quando ti mettevi da parte 29.900 lire per comprare il VHS di Blade Runner. Voleva dire che davi valore a quel film. Oggi si consumano, e se dopo tre minuti non ti piacciono li levi, tanto ce n’è un altro.

Non ti domandi più quando esce un film, ma dove, perché il cinema non si dà più per scontato. Oggi vediamo le cose in verticale, scrollando su un telefonino. Non siamo più abituati a vedere le cose nell’orizzontalità che ti consente di vedere i dettagli del cinema. Ho un po’ di nostalgia, ma credo sia sana, mentre viviamo in un’epoca in mutamento che respinge l’epica. Ai miei tempi, Stallone era Rambo o Rocky.

Oggi puoi vedere in una storia cosa mangia la mattina a colazione o quando va al gabinetto. Quando manca la distanza non esiste più il mitus. L’epica va riducendosi, ma dobbiamo restituirci la possibilità di amare il cinema. È il mio migliore amico, mi ha salvato la vita un sacco di volte, dalla solitudine. È un’arte, ma anche un luogo magico. Quest’estate costerà anche poco, 3 euro e 50. Restituiamoci la possibilità straordinariamente democratica di tornare al cinema al costo di un pacchetto di chewing gum.