Úsvit, una storia sull’intersessualità dalla Cecoslovacchia del 1937. E un promemoria: non siamo mai stati moderni

Presentato nel 2023 al Karlovy Vary, e ora in concorso alla 39esima edizione del Lovers Film Festival, il secondo film di Matěj Chlupáček è una fotografia di un mondo che ha promesso di cambiare, ma che non ne aveva intenzione

Non siamo mai stati moderni, e il film Ceco Úsvit (in inglese We Have Never Been Modern), diretto da Matěj Chlupáček, lo dimostra. Lo fa in un modo certamente non convenzionale ma efficace, forte. We Have Never Been Modern è una fotografia degli anni Trenta del Novecento, di quanto l’umanità pensava di stare costruendo un mondo nuovo, più moderno e aperto.

In realtà non è così, quella società stava solo cambiando aspetto, ma non sostanza. Il film – con i suoi toni drammatici e scene di grande intensità – affronta le questioni di genere con una tanto delicata quanto incisiva trasversalità. La storia, ambientata nella Cecoslovacchia del 1937, in un piccolo paese che sta nascendo attorno a una grande fabbrica di calzature, segue l’indagine della protagonista Helena. Lei, dottoressa, è incinta, ed è la moglie di Alois, direttore della fabbrica.

Scritto da Miro Šifra, Úsvit è stato proiettato in anteprima durante l’edizione 2023 del Karlovy Vary International Film Festival, ed è ora in concorso – nella sezione All the lovers – del 39esimo Lovers Film Festival di Torino.

Úsvit, la storia

Poco prima della visita del proprietario dell’industria – nonché del parto di Helena – davanti alla fabbrica viene rinvenuto un feto con caratteri sessuali sia maschili che femminili. Qualcuno pensa al sabotaggio di questo nuovo progetto di città e società moderna, ma la protagonista non è convinta. Loro stanno cercando capri espiatori, conferme alle loro convinzioni. Non la verità.

E mentre la colpa viene scaricata sui lavoratori con ideologia comunista, Helena capisce che le cose sono un attimo più complesse di quello che sembrano, e sarà la sua tenacia il motore di un film che è uno schiaffo in faccia al perbenismo della civiltà moderna.

Una società che si professa aperta, ma ancora vittima di dogmi religiosi e tradizioni secolari (non secolarizzate). We Have Never Been Modern è infatti una storia queer che racconta l’intersessualità, cioè persone che hanno caratteri sessuali non definibili come esclusivamente maschili o femminili, in un mondo che non ha ancora accettato l’amore tra due uomini o due donne, o l’identità trans e non binaria.

La ricostruzione di questa piccola – e presunta – utopia industriale è realizzata in maniera eccellente dal reparto costumi e scenografia, mentre la regia riesce a dare forma a questa tensione latente tra modernità e tradizione, tra fumi di fabbriche e inquadrature bucoliche.

Non siamo mai stati moderni

Eliška Křenková (Helena) e Miloslav König (Alois) sono magistrali nei ruoli di una coppia eterosessuale in crisi di fronte alla complessità dell’essere umano e del cambiamento, mentre la performance dell’attore trans Richard Langdon colpisce per sensibilità, e nelle reazioni che il suo personaggio Saša esprime di fronte alla curiosità invadente di Helena.

Il punto di vista della giovane dottoressa è in sé una scelta di grande impatto, una direzione chiara per far emergere anche la questione femminile nella relazione e nella società. E anche la sua condizione di privilegio economico viene decostruita e demolita nel corso delle due ore di pellicola.

Una direzione, quella del regista Chlupáček e dello sceneggiatore Šifra, che risveglia negli spettatori un sentimento di bilico tra un mondo maschile fatto di giochi di potere e la voce di persone ancora più marginalizzate.

Il risultato è un’istantanea struggente di un mondo che cambia senza cambiare, di individualismi che sopprimono lotte collettive e di persone invisibili che hanno bisogno di emergere. We Have Never Been Modern non vuole dare una speranza, e dopo la visione c’è più consapevolezza di un atteggiamento piccolo borghese dal quale la società non si è ancora svincolata anche negli anni Venti del Duemila. Fa male, ma non siamo mai stati moderni. Da questa presa di coscienza, ora, si può ripartire.