Ayrton Senna: 30 anni fa moriva il migliore, il pilota che voleva fermare tutto per salvare gli avversari

Un simbolo, un'icona, uno sguardo malinconico che ha attraversato la Formula 1 con la stessa imprevedibilità, eleganza, impulsività con cui sorpassava chi gli era davanti. Il 1° Maggio 1994

Ayrton Senna, Brasile in testa, sul casco, e nel cuore, coraggio nella pancia e nelle mani, dolore e forse persino paura nello sguardo per uno sport che stava andando troppo oltre.

Piangere di Primo Maggio un uomo che ha scelto lo sport più pericoloso, quello che ti porta a traiettorie impossibili, sorpassi estremi e velocità di punta che con ali al posto di alettoni potrebbero farti decollare, può sembrare un controsenso. E controsenso, lui che era sempre quello che dettava la direzione, davanti a tutti, andò nelle sue ultime ore.

Già perché in anni ’80 vacui e ossessionati dal lusso e in cui nasce il culto dei vincenti (o morte), lui già diceva, pur se di nascita borghesissima e privilegiata, “non si può vivere circondati da un oceano di povertà”. Lo diceva spiegando con pudore il perché della fondazione Senna che ora, guidata dall’amata sorella, è una delle realtà benefiche che ha in essere più progetti di sviluppo e iniziative di miglioramento della qualità della vita dei più sfortunati nel suo Brasile.

Quel Brasile che pianse tutto, come il resto del mondo, quella morte ingiusta, in un funerale che fu il momento di raccoglimento di un continente intero.

La festa dei lavoratori, la tragedia di un dipendente privilegiato

Camminava assorto, Ayrton, sul circuito di Imola. Davanti alla curva Villeneuve si ferma. Scuote la testa. Poche ore prima lì è morto Roland Ratzenberger. Pensava, il campione, che no “non siamo pagati per morire”. Lui, che paura non ne ha mai avuta.

Non sotto piogge torrenziali, quelle che all’Estoril nel 1985 sulla sua Lotus gli diedero la prima incredibile vittoria in un gran premio in cui si ritirarono 16 piloti.

Non nel 1988, quando ottenne una pole incredibile a Montecarlo: tre giri veloci, supersonici, in un circuito cittadino in cui sembrava attraversare, smaterializzare i muri del tunnel.

Lui che un mondiale lo vince vendicandosi di Alain Prost e causando una collisione con lui.

Ma a Imola, lui, aveva capito tutto. E aveva paura, non se ne vergognava. Erano pagati per rischiare la vita, non per morire, c’è una bella differenza.

È tutto sbagliato. Rubens Barrichello il venerdì, nelle prove libere, nell’incidente più spettacolare, decolla. Sembra una tragedia sicura, uscirà illeso il brasiliano, il suo pupillo, allora da molti considerato il suo erede. Senna, però, nelle riunioni dei piloti, al suo fisioterapista, persino a un tifoso esprime una paura che nessuno gli conosceva. Lo sguardo più malinconico, le espressioni ancora più assorte, quasi a immaginare il suo destino. Vuole che non si corra. Non vuole rinunciare lui, vuole salvare tutti.

Lui, il campione, diventa il difensore di tutta la sua categoria. Inascoltato da colleghi, Circus, quel Frank Williams che subirà con enigmatica e apparente indifferenza la colpa della morte del 34enne, per quella sospensione che non farà il suo dovere e lo costringerà a quell’innaturale rettilineo verso il Tamburello. Inesorabile, tragico, come un elicottero che si avvita e dà al pilota il tempo di capire come morirà.

Ayrton Senna

Il brasiliano Ayrton Senna sorridente dopo aver effettuato le prove valide per il Gran Premio d’Italia, il 17 agosto 1989. ANSA

Ayrton Senna, il migliore

Chissà cos’ha pensato quel ragazzo, perché a 34 anni si è ancora ragazzi, anche se Ayrton sembrava esserci da sempre. Così bello, così amato – dai tifosi, anche e soprattutto quelli delle scuderie che potevano solo sognarlo, da donne meravigliose – così talentuoso. Non era stato il più vincente, i record come Diego Armando Maradona, li aveva lasciati ad altri: lui aveva occupato militarmente il nostro immaginario. La sua impulsiva eleganza, le sue imprese. Chi non ricorda il suo primo Interlagos vinto, con una marcia sola, nel 1991. Una sola, la sesta, con un Nigel Mansell indemoniato che lo incalzava.

“Ho avuto problemi di cambio sin da metà gara e sono rimasto alla fine solo con la sesta marcia. Dovevo rallentare da 300 a 70 km/h nei tornanti senza alcun freno motore che anzi spingeva. Ho dovuto spingere più del previsto perché Mansell mi attaccava in continuazione. Non avevo mai sofferto così: ho trovato dentro di me una forza che veniva certamente da Dio. Ho urlato e gli ho chiesto una vittoria che meritavo. Dedico a Lui questo successo. Dopo l’arrivo ero stravolto, non sapevo se ridere o piangere”.

Noi lo sappiamo. Urlava, rideva e piangeva tutti insieme al momento della vittoria. Urlava prima, di dolore, perché le sue gambe erano consumate, come la sua tensione. Il pubblico in delirio.

Come i veri grandi campioni, di Senna non ricordi i trionfi che ti sembrano ovvi. Ricordi l’impossibile che ha reso possibile, ricordi l’umano che diventa divino e viceversa.

Ayrton Senna e Roland Ratzenberger, l’ultimo è stato il primo

Chissà cos’ha pensato Ayrton Senna in quelle ore di angoscia. Lui che vedeva un sorpasso dove non c’era, una vittoria che nessun altro poteva cogliere, un mondiale che non sarebbe dovuto essere suo. Lui ha visto la morte, la sua, e di una Formula 1 che è cambiata radicalmente grazie a lui. Prima che avvenissero.

Chissà cos’ha pensato quando lui, unico, piangeva Roland Ratzenberger, un pilota come ce ne sono tanti in Formula 1, uno di quelli che colleziona sponsor per realizzare il sogno bambino di poter partecipare, sapendo di non poter vincere. Roland era uno che faticava a qualificarsi, Senna doveva vincere quel mondiale, anche se era partito male.

Senna sembrava finalmente in una posizione favorevole per la rimonta, ma per lui la vittoria, che pure era una dea a cui tributava il suo talento con tutto se stesso, non era mai stata l’unica cosa che contava. Loro erano lavoratori che meritavano di essere tutelati, come tutti gli altri. E se non ci pensava chi organizzava o chi pagava, allora doveva pensarci il migliore, lui.

Non riesce a convincere colleghi, capi, tv, responsabili del circuito che, chissà, cinicamente pensarono che Ratzenberger non valesse fermare quella giostra così ricca. Che l’ultimo era morto sicuramente per un suo errore. The show must go on, Ayrton, come lo paghiamo il tuo superstipendio? Gli avranno magari detto.

Ayrton Senna non si muove. Maledetto Tamburello. Maledette 14.17.

Lui obbedisce. Potrebbe salvarsi da solo, nessuno lo licenzierebbe per un gp saltato, lui è Ayrton, The Magic. Ma il privilegio non l’ha mai amato, lui su quella pista è come gli altri. E se li vogliono carne da macello, allora in prima fila, in pole position, anche nell’andare incontro alla morte, ci sarà lui. Forse, se succederà qualcosa a lui, qualcosa cambierà.

Ore 14, si parte. Ayrton è primo. No, aspetta, si riparte. È primo comunque. Per la prima volta in stagione sembra lanciato verso la vittoria. Ore 14.17. Gira, cazzo, gira quella macchina. Cosa succede? Non può aver fatto un errore così. No,onn è un errore. Bum. Sembra un incidente in fondo normale. Via di fuga lunga, la macchina dritta, contro muro e gomme. E allora perché non muovi quella testa, Ayrton. Dai, alza quella mano. Alza il pollice. Niente.

Arriva il medico Sid Watkins. Fa segno che respira, ma è sconvolto. Giorni dopo sapremo che ha visto il braccetto della sospensione che si è assurdamente bloccata contro il collo di Ayrton. Alla base del cranio. Teme emorragie. Si avvicina un altro medico, su una Vespa. Il suo viso, pur da lontano, dice tutto.

Il gran premio proseguirà. Ayrton, in elicottero, andrà a morire a Bologna, non tornerà più nella suite 200 dell’Hotel Castello. Quello meravigliosamente raccontato nell’immaginifico e per questo realissimo romanzo di Giorgio Terruzzi, penna meravigliosa e sopraffina, in Suite 200. L’ultima notte di Ayrton Senna per quella casa editrice straordinaria che è 66thand2nd. Terruzzi si immedesima in Ayrton. Ed è straziante, potente, totale. Com’era quel pilota, quell’uomo. C0sì forte e così fragile, lui che portava il cognome della madre Neyde. Diceva perché quello paterno, Da Silva, era troppo comune. Ma quella sensibilità, quella grazie era materna. Andavano onorate.

Il sogno diventa incubo

“Senza sogni non si può vivere” diceva sempre. “Se una persona non ha più sogni, non ha più alcuna ragione per vivere.
Sognare è necessario, anche se nel sogno va intravista la realtà. Per me è uno dei principi della vita”. Sognare un altro mondiale, una Formula 1 più giusta lo ha anche ucciso. La vita gli ha dato meno di quanto meritasse. Un figlio magari, un amore eterno, anche solo vedere quanti bambini sono diventati adulti grazie a lui. Lui ci ha regalato tanti sogni e questo solo terribile incubo.

In un Primo Maggio in cui il migliore, il più forte, il più ricco ha pensato a tutti gli altri. Ha provato a dir loro di fermarsi.

Ma come sempre era troppo avanti, forse non l’hanno sentito.

1 maggio 1994, ore 14.17. Ciao, Ayrton. Trent’anni dopo fa ancora male.