Trent’anni senza Massimo Troisi: il regista e attore che ci ha detto che un’altra Napoli è possibile

Quel 4 giugno 1994 la morte di Massimo Troisi ci colse di sorpresa, strozzandoci in gola la gioia dell'estate appena iniziata, la leggerezza di una giornata di sole che, proprio pochi minuti prima dell'annuncio, era andata incupendosi, con una pioggia lieve e poi più insistente a bagnare il Lazio e quella Ostia che nella villa della sorella lo aveva visto passare dal sonno alla morte.

Quel 4 giugno 1994 la morte di Massimo Troisi ci colse di sorpresa, strozzandoci in gola la gioia dell’estate appena iniziata, la leggerezza di una giornata di sole che, proprio pochi minuti prima dell’annuncio, era andata incupendosi, con una pioggia lieve e poi più insistente a bagnare il Lazio e quella Ostia che nella villa della sorella lo aveva visto passare dal sonno alla morte.

Chi scrive, già cinefilo e napoletano non di nascita ma d’amore e appartenenza, prese con un amico un cinquantino scassato e intraprese un viaggio assurdo e pericoloso (per chiunque conosca la Colombo) fino all’Infernetto. Chissà perché, quasi a voler esorcizzare quella notizia, a sperare di vederlo, magari emaciato e stanco – lui vestiva la sua malattia di una vanitosa pigrizia, per non suscitare pietismi -, ma vivo.

Lo spettacolo, visto e vissuto da lontano, per pudore, fu un film che qualcuno un giorno dovrà scrivere. Una lenta, continua processione di volti noti che entravano affranti. Roberto Benigni curvo e in lacrime, come nessuno ha mai visto, lui maschera eterna d’amore e gioia, al punto di essere quasi irritante, aveva disegnato in viso il dolore più inconsolabile.

E chissà che già in quei minuti non stesse già immaginando la poesia che poi gli avrebbe dedicato.

Non so cosa teneva dint’a capa;
intelligente, generoso, scaltro,
per lui non vale il detto che è del Papa,
morto un Troisi non se ne fa un altro.
Morto Troisi muore la segreta
arte di quella dolce tarantella,
ciò che Moravia disse del Poeta
io lo ridico per un Pulcinella.
La gioia di bagnarsi in quel diluvio
di jamm, o’ saccio, ‘naggia, oilloc, azz!;
era come parlare col Vesuvio, era come ascoltare del buon Jazz.
“Non si capisce”, urlavano sicuri,
“questo Troisi se ne resti al Sud!”
Adesso lo capiscono i canguri,
gli Indiani e i miliardari di Holliwood!
Con lui ho capito tutta la bellezza
di Napoli, la gente, il suo destino,
e non m’ha mai parlato della pizza,
e non m’ha mai suonato il mandolino.
O Massimino io ti tengo in serbo
fra ciò che il mondo dona di più caro,
ha fatto più miracoli il tuo verbo
di quello dell’amato San Gennaro.

Ed è stato forse l’ultimo grande capolavoro di Benigni questa poesia, semplice e immediata come le risate che in Non ci resta che piangere quei due, strana e meravigliosa coppia, riuscivano a stento a trattenere e non riuscirono a cancellare del tutto neanche in montaggio. Perché, come poi avrebbe fatto nel 2023 l’affettuoso e irresistibile documentario Laggiù qualcuno mi ama di Mario Martone, ci restituisce in poche parole l’immagine non del santino, ma dell’artista che ha saputo emancipare una città, una cultura, un modo di essere.

La napoletanità con lui è diventata internazionale, un po’ come poi fece L’orchestra italiana di Renzo Arbore, con Troisi quell’unicità nel fare arte, nell’esprimersi non era più qualcosa di cui essere ostaggio, qualcosa che ti confinava all’essere un caratterista o un mito da spolverare in vita e capire post mortem, ma qualcosa di vivo, vitate, in costante evoluzione.

Diciamocelo, se non fosse morto a 41 anni il grande artista partenopeo, ora direbbero di Woody Allen che è il Massimo Troisi americano.

Mario Martone mentre monta il documentario dedicato a Massimo Troisi, Laggiù qualcuno mi ama

Mario Martone mentre monta il documentario dedicato a Massimo Troisi, Laggiù qualcuno mi ama

Ha portato Napoli nel mondo e nel nostro immaginario senza mandolino o pizza, appunto. Con una battuta, geniale, diventata modo di dire. È successo poi ancora per molti titoli di suoi film: Ricomincio da tre, riesumata per il terzo scudetto del suo amato Napoli, insieme a Scusate il ritardo, che invece bagnò il primo; Pensavo fosse amore invece era un calesse, l’ultima opera da regista, è il modo in cui definiamo avventure sentimentali che avevamo inizialmente sopravvalutato.

Ma c’è una battuta (qui ne trovate un po’), ricorrente, in Ricomincio da Tre. Michele Mirabella dà un passaggio a Massimo Troisi. “Da dove venite?”. “Da Napoli”. “Ah, emigrante”. “No, no, anzi, a Napoli avevo anche un lavoro, sono partito così per viaggià, per conoscere”. Le ultime due volte in cui dovrà contraddire il suo interlocutore, nel film, finirà per rassegnarsi alla sua (non) condizione e poi, invece, a negarla arrabbiato.

Perché Troisi era bello e bravo quando si arrabbiava. Quando lo faceva per finta con Lello Arena che si votava a tutti i santi per vincere la lotteria e neanche comprava il biglietto – e con un’idea geniale ridicolizzare un difetto atavico e fatalista della sua cultura -, quando aveva il coraggio di prendersela pure con Pertini per “i soldi del Belice” perché persino il presidente partigiano non si sottraeva ai luoghi comuni pelosi sul Mezzogiorno e i meridionali, invece di rivolgersi ai suoi ministri. Troisi non ci stava comodo nei panni della vittima, non li vestiva mai. Lui reagiva, a modo suo. Per lui il napoletano non era il magnifico perdente che amano tutti.

Non era Totò né Eduardo, Massimo Troisi, ma era entrambi. E molto altro, tanto che come Benigni raccontava, al Nord, al Centro, in quell’Italia che odia Napoli per la sua bellezza e dissolutezza, per un insormontabile incapacità di capirla e un costante desiderio di biasimarla, Troisi lo si attaccava per la sua lingua. Per il modo di parlare, per quella grammatica cinematografica, emotiva, lessicale che era solo sua.

Perché fuggiva ogni stereotipo. Non era un guitto snodabile che nascondeva in sé un artista come Totò, né epico, classico e intimo come Eduardo. Lui era dinoccolato, elegante e piaceva alle donne. Sapeva essere modernissimo, pur non dimenticando mai la lezione dei maestri. Lui era Massimo Troisi.

Scriveva poesie che a volte diventavano canzoni. Con Pino Daniele hanno creato la più bella canzone d’amore italiana, Quando, e insieme hanno ironizzato con senso sopraffino della bellezza e della dolcezza, con O ‘ssaje come fa’ ‘o core, sui sentimenti che sapevano raccontare con la loro arte ma anche con quei maledetti muscoli cardiaci che l’hanno traditi almeno quanto l’hanno resi unici. Ha fatto diventare Gianni Minà e la sua agendina un mito, Alessandro Renica, il libero del Napoli del primo scudetto, immortale con uno sketch geniale. Lui, semplicemente, con ogni mezzo espressivo eccelleva.

Non era ossessionato dal successo, anzi. Lo temeva, come ha raccontato Enrico Lucherini nel primo numero cartaceo di The Hollywood Reporter Roma, quando fu costretto a mandare avanti Ettore Scola e Marcello Mastroianni e “Massimo si attaccò a me, chiedendomi di parlare di fesserie, per distrarlo, mentre il mio piano di sottrarlo alla folla facendole inseguire quei due era riuscito”.

Era ossessionato dalla bellezza, tanto che quando andò a scrivere con Michael Radford, Furio e Giacomo Scarpelli, la compagna di sempre Anna Pavignano (anche grazie a lei ha affinato una incredibile e inusuale, per quegli anni, attitudine a regalare personaggi femminili tridimensionali e inaspettati), passò per Houston scoprendo di avere un problema.

Le valvole in titanio innestate 17 anni prima si erano logorate. Ed ecco la malinconia e il fatalismo elegante da dove venivano, da un 23enne che all’alba della sua carriera, mentre faceva teatro indipendente in un locale parrocchiale ma già in tanti parlavano di lui, deve affrontare la morte. E la sconfigge, o meglio la rimanda indietro con perdite, ma pronta a tornare a trovarlo. L’America era la sua Samarcanda (quella cantata da Vecchioni). Andò lì grazie a una colletta organizzata dal quotidiano Il Mattino, un grande cardiochirurgo e la sua dolce incoscienza, ci tornò su una pellicola, Il postino, che lo vide candidato postumo all’Oscar..

Lì si fa rioperare, ma serve un trapianto. Decide di farlo, ma solo dopo il set, proprio con Radford (che convinse a girare dicendogli che l’avrebbe fatto Tornatore, che non aveva mai contattato). Morirà poche ore dopo l’ultimo ciak, e che rabbia a ripensarci ancora.

Perché questi uomini e donne così disorientati, così incapaci di capire i propri ruoli, di ridefinirli, di adattarsi ai cambiamenti ma di pretenderli che abitano il nostro mondo quanto sarebbero stati meravigliosi raccontati da lui? Questa politica becera, in ospitate televisive rare ma ficcanti, quanto lo avrebbe ispirato nel ridicolizzarla con eleganza? A 71 anni, ora, sarebbe ancora più bello, ironico. Sarebbe, per tutto il mondo, il Woody Allen napoletano e non smetterebbe di ammaliarci e sedurci. Con film sempre diversi, regalandoci altri modi di dire, con quei finali di film spiazzanti, con quelle battute che non smettiamo di ripeterci (Massimiliano e Ugo non sono forse i nomi più citati da chi sta per avere un figlio e deve deciderne il nome?).

E invece siamo qua. E di quella poesia recitata in tv – ma come potrebbe essere possibile oggi riuscirci? – non c’è più nessuno. Non c’è Gianni Minà, che il talento sapeva investigarlo, raccontarlo, valorizzarlo, giocarci, andarci a cena e renderlo storia. Non c’è Pino Daniele a cui tutti dissero che aveva la voce sbagliata, la mano sbagliata per suonare, la capa sbagliata, perché Napul è tutto quello che diceva lui, ma teniamocelo per noi. E invece no, erano gli altri a essere sbagliati, Pino.

Non c’è Massimo Troisi, che non ha mai aspettato la ciorta, perché non ne aveva. Perché la fuggiva, come quella volta che confessò di essersi pentito di aver ricevuto il David per il miglior esordiente. Perché diceva di non meritarlo, perché allora secondo lui contò la fama televisiva. Che “protesta” moderna, a ripensare alla cinquina di quest’anno.

Diceva che sarebbe stato orgoglioso così di dire che mai aveva vinto un David perché dopo, invece, lo ignorarono, come spesso fecero con quegli eredi bistrattati della grande commedia all’italiana. Eppure Scola e Scarpelli lo capirono subito chi era, Massimo Troisi. E lui, il sistema lo terremotava con un fil di voce e una battuta che a volte ci mettevi anni a capirla davvero.

Eleganza. E dolcezza. Se pensi a Massimo Troisi pensi a un uomo che ci ha fatto ridere e commuovere praticando l’arte della dolcezza, mai sdolcinata e mai stucchevole, la dolcezza dello stupore bambino, della complessità in un involucro di semplicità. Quella levità a volte persino indolente che era sempre delicatezza, attenzione per l’altro, incapacità di non dire sempre la cosa giusta. Come in Ricomincio da tre, a Robertino. In cui ci prova a salvarlo da “mammina” ma poi lo manda a fanculo. Sì, così. Perché le diceva le parolacce Troisi, ma non le ricordi. Perché lì dovevano stare.

Massimo Troisi non è morto, se n’è andato. Questo mondo stava diventando troppo squallido per uno come lui. Forse quel cuore non l’ha tradito. Ha tradito solo noi, che da quella dolcezza potevamo essere salvati. In fondo lui, che Le vie del Signore sono finite, l’ha capito prima di tutti. E ce l’ha detto con un gioiello che in pochi hanno capito. Quando ha deciso di dire, nella sua breve vita e carriera, che era molto altro, per farlo capire a chi si ostinava a confinarlo nella macchietta del napoletano moderno, ma pur sempre napoletano.

Ah, due cose, poi ti, vi saluto. Abbracciaci Diego, Massimé, come quando avete giocato a pallone insieme. Due cuori malandati e puri, così vicini e così diversi. E poi volevo darti una bella notizia: un gruppo di ragazzi intelligenti e coraggiosi ti hanno dedicato un cinema. A Roma.

Il cinema Troisi. È sempre pieno. Ti piacerebbe. Ti piacerebbero.