Pellerossa siciliani e vecchiette prese a pugni: nel Far West (antirazzista) di Mel Brooks nulla era vietato

Primo fatto: lo scorso 9 gennaio il regista di Frankenstein Jr ha ritirato il suo Oscar alla carriera. Secondo fatto: compie cinquant’anni Mezzogiorno e mezzo di fuoco, uno dei più grandi cataloghi di bischerate, sketch, calembour, nonsense, flatulenze, torte in faccia, doppi sensi di sempre. Quando i dirigenti della Warner Bros videro il film, cominciarono a piangere: “È troppo volgare!". E invece il film entrò nella storia del cinema

Lo scorso nove gennaio, il decano Mel Brooks ha ritirato il suo Oscar alla carriera. A consegnare il premio erano Nathan Lane e Matthew Broderick, i protagonisti del musical tratto dal fulminante esordio di Brooks, Per favore, non toccate le vecchiette. Come da prassi immancabile, i due hanno recitato un monologo comico, sfociato in musical, a omaggiare l’arte del comedy king. È stato uno spettacolo riverente, solare, un po’ impacciato. La scuola comica di Brooks è un’altra, e lui è salito in cattedra ancora una volta, a novantasette anni, col premio in mano. La prima battuta è preparata: “Mi sento così in colpa per l’Oscar che ho vinto per la sceneggiatura di Per favore, non toccate le vecchiette. Non avrei dovuto venderlo. Ma come dicono spesso i comici, senza intenderlo davvero: seriamente…”.

Da lì, si va avanti a braccio. La comicità di Brooks nasce dal caos, dall’improvvisazione, dal marasma della mente da cui alcuni eletti sanno pescare l’impulso giusto tra miliardi. “Seriamente… mi devo seriamente soffiare il naso”. Tira fuori il fazzoletto e si giustifica: “Nessuno fa le cose che faccio io, eh? Sono tutti diversi, alcuni sono bravi, altri fanno schifo”. Si soffia il naso: “Questo è nella media”. È un’ironia che non puoi spiegare a chi non l’ha capita, perché è inspiegabile, fa ridere e basta.

Come una rissa tra ubriaconi

Per sapere scegliere l’idiozia più succulenta, bisogna dirne in continuazione, allenare l’intuito. Compie cinquant’anni Mezzogiorno e mezzo di fuoco, uno dei più grandi cataloghi di bischerate, sketch, calembour, nonsense, flatulenze, torte in faccia, doppi sensi, della storia del west. La scrittura di quel film sembra una barzelletta: un accademico, un dentista, un avvocato, un comico e un regista entrano in una stanza e scrivono la parodia di un western. L’accademico, Andrew Bergman, che ebbe l’idea del film, la definì: a rioter’s room, la writer’s room di chi fa i riot, le rivolte. Mezzogiorno e mezzo di fuoco, spiegò Mel Brooks, “è stato scritto più o meno durante una rissa tra ubriaconi”.

Nel delirio, esce fuori una storia. La costruzione di una ferrovia viene deviata per evitare le sabbie mobili e deve passare per il piccolo villaggio di Rock Ridge. Il procuratore di stato fiuta la possibilità di fare affari e manda la sua banda a gettare il panico nella cittadina, per far fuggire gli abitanti e svalutarne le proprietà. Quando lo sceriffo viene ucciso, una lettera dei cittadini con la richiesta urgente di mandarne uno nuovo arriva al governatore Le Petomane.

Il governatore, però, è controllato dal procuratore stesso, che lo convince a dare la stella dorata a un nero che sta per essere impiccato per aggressione. E quando il nuovo sceriffo Bart arriva a Rock Ridge, la scoperta del suo colore della pelle spegne la festa di benvenuto dei campagnoli razzisti. Ma, come è inevitabile, Bart si mostrerà la loro unica speranza.

Mel Brook durante la cerimonia di consegna per l'Oscar alla carriera

Mel Brook durante la cerimonia di consegna per l’Oscar alla carriera

Ad un certo punto i dirigenti della Warner Bros videro il film. E cominciarono a piangere. “È troppo volgare!”. “Il pubblico è volgare”, rispose Brooks: “Lo adoreranno!”. Come ha detto Lane consegnandogli l’Oscar: “Molti lo hanno accusato di essere volgare, lui ha risposto «stronzate»”. “Prendi nota”, incalzarono i dirigenti, “non si possono picchiare le vecchiette, non si possono prendere a pugni i cavalli, ci sono troppe scorregge, troppe ingiurie razziste”. “Certo, certo, ha ragione” rispose Brooks, che non aveva alcuna intenzione di cambiare una virgola del film: il suo contratto gli garantiva il final cut.

Un manifesto di antirazzismo

Oggi, sostiene, Mezzogiorno e mezzo di fuoco non lo avrebbe potuto girare. Probabilmente ha ragione: negli Stati Uniti, la parola nigger è praticamente impronunciabile da un bianco, anche quando è il personaggio razzista di un film. Lo scudo politico di Brooks fu Richard Pryor, il comico della rioter’s room, nero e irriverente. Qualche anno prima aveva abbandonato la stand up abbottonata con un’epifania su un palco di Las Vegas: “Ma che cazzo sto facendo qui?”, si chiese al microfono, per poi abbandonare la sala. Da quel giorno cambiò il suo stile e divenne uno dei più grandi comici degli Stati Uniti.

Nonostante le accuse di razzismo, il film è un grande manifesto antirazzista. Nelle parole di Gene Wilder, che nel film interpreta il pistolero ubriacone Waco Kid, gli sceneggiatori “hanno dato un pugno in faccia al razzismo, ma lo hanno fatto mentre ridevamo”. Brooks di emarginazione aveva imparato qualcosa. In un’intervista a Newsweek aveva spiegato: “Vuoi sapere da dove viene il mio senso dell’umorismo? Viene dalla sensazione, come ebreo e come persona, di non andare bene per il mainstream americano”.

Mel Brooks nella parte del capo indiano

Mel Brooks nella parte del capo indiano in una scena di Mezzogiorno e mezzo di fuoco

Nel film, dopo l’ennesimo insulto razzista a Bart, Waco lo consola: “Cosa ti aspettavi? Benvenuto figliolo? Mettiti pure comodo, sposa mia figlia? Devi tener presente che è gente semplice, alla buona. Sono poveri contadini ignoranti. Non la cambi mica questa gente del nuovo west. È gentucola: merda.” Di tutte le leggendarie reazioni fuori sceneggiatura, poi rimaste nei film per volere dei registi, la risata di Bart-Cleavon Little è la più palese.

Il dizionario comico di Mel Brooks

Non ridere è impossibile, nel carnevale di Rock Ridge: il dizionario comico di Brooks è illimitato, il registro continuamente variato. Quante cose puoi fare con un cavallo? Lo puoi condannare a morte, lo stendi con un pugno, lo puoi sostituire con una berlina, lo fai saltare in aria, gli imponi un pedaggio nel bel mezzo del deserto…

Il lavoro sul linguaggio è da maestro: “pissant prairie punk”, piccolo pistolero di merda, è un insulto fenomenale. Solo un grande della traduzione come Roberto de Leonardis poteva adattarlo all’italiano: Mezzogiorno e mezzo di fuoco è il suo capolavoro fin dal titolo, che in inglese è invece un ordinario Selle ardenti.

De Leonardis fu uno dei più fidati traduttori della Disney e di Kubrick, un curriculum che testimonia il ventaglio delle sue capacità. Non aveva imparato l’inglese a scuola: lo aveva imparato mentre era prigioniero dei giapponesi con gli americani durante la guerra. La sua traduzione conserva la sfarzosità dell’originale: anche in italiano, Rock Ridge è tutta piena di voltagabbana, figliendrocchia, marchettari, mettinculo, cornutacci.

Dallo yiddish al siciliano

La sagacia di De Leonardis si mostra tutta in una delle scene cardine, quella dell’incontro con gli indiani. Quando attaccano la carovana, il capo indiano si stupisce del colore della pelle della famiglia di Bart e decide di risparmiarla. Sarebbe una scena per i più seri western revisionisti, se non fosse che il capo indiano parla yiddish, nella versione originale, e ha la faccia di Mel Brooks. “Loz im geyyyn!”, canta l’indiano: “Lasciateli passare!”. Era pratica comune quella di ingaggiare attori non esattamente nativi americani per le parti degli indiani.

Una scena di Mezzogiorno e mezzo di fuoco, di Mel Brooks

Una scena di Mezzogiorno e mezzo di fuoco, di Mel Brooks

Tutto questo contesto manca al pubblico italiano, e de Leonardis si trova nelle mani un bell’inghippo. Non gli rimane che sparigliare le carte: i suoi indiani parlano in siciliano. “Servo vostro, eccellenza… Santuzzo, hai visto che roba? Cchiù neri di noi sono!”. Il capolavoro è la traduzione dell’urlo “Loz im geyn!”, che diventa “Limonarooo!”, il richiamo del venditore di limonate in spiaggia. Non ha alcun senso, ed è uno dei più grandi momenti del doppiaggio italiano.

“Sbrigatevi o dovranno cambiare il titolo del film” è una battuta brillante e ovviamente nell’originale non c’è, ma anticipa la piega meta-cinematografica che prenderà il mitologico finale del film. La scazzottata conclusiva è talmente irruenta che sfonda, letteralmente, la quarta parete degli studi della Warner Bros, interrompendo le riprese di un musical. “STOP! Ma come diavolo avete fatto a entrare qui? C’è scritto vietato l’ingresso”, dice il regista. “Vietato un cacchio”, gli risponde un pistolero: “I’m working for Mel Brooks!”. E giù botte.