Un importante signore feudale è costretto a trasferirsi alla corte del re, dove dovrà stare attento alle ambizioni dei signori rivali se vorrà avere salva la pelle. Westeros è lontanissima: siamo nel Giappone del ‘600, la fine dell’era Sengoku si avvicina, la corte del re è a Osaka ed è il primo episodio di Shogun, la nuova miniserie di FX (Atlanta, The Bear), da noi in streaming su Disney+. Lord Toranaga condivide con Ned Stark una certa umanità, ma ha uno sguardo più volpesco e forse più ambizioso del signore di Grande Inverno.
Shogun, l’incontro-scontro di civiltà
A cambiare il destino del lord giapponese potrebbe essere però l’arrivo di un alleato inaspettato, il capitano inglese John Blackthorne, approdato in Giappone dopo un viaggio massacrante con una nave mercantile olandese. Lo accompagna alla corte del daimyo un prete spagnolo arrivato dal Portogallo, Rodriguez: il Giappone è terra di scambi dei missionari portoghesi, ma John è arrivato nell’arcipelago per cambiare le cose.
Proprio sull’incontro tra civiltà è fondato Shogun. Fare una serie americana ambientata in Giappone è un’operazione culturale rischiosissima negli anni in cui gli stereotipi etnici non sono più accettabili. Nonostante qualche ingenuità (c’è una scena dove John salva da una tempesta la nave giapponese che lo sta portando ad Osaka, da manuale del white savior), la serie racconta questo incontro con grande efficacia.
Lo scontro culturale è prima di tutto nel linguaggio, tra personaggi che nella propria lingua si accusano a vicenda di essere dei barbari. In una scena, lo spagnolo Rodriguez (che ha il volto seriale di Néstor Carbonell, una delle combinazioni nome-cognome più belle della storia della tv; Cosmo Jarvis, l’attore protagonista, è secondo classificato) chiede a John se è un pirata: “ai” risponde quello. Potrebbe essere l’aye! dei pirati ma potrebbe anche essere はい, “hai”, sì in giapponese.
Quello linguistico è un pasticcio gustoso. I dialoghi tra giapponesi sono effettivamente in giapponese. Nel podcast ufficiale della serie, la sceneggiatrice Emily Yoshida spiega che quei dialoghi sono stati scritti prima in inglese, poi controllati e tradotti dai produttori giapponesi, per poi essere rivisti da alcuni drammaturghi giapponesi per maggiore aderenza al linguaggio dell’epoca(!), e poi ritradotti in inglese (e ancora in italiano) per i sottotitoli.
Portoghese o inglese? Di sicuro è Babele
Ma la parte più complicata è quella degli altri dialoghi, quelli in inglese (o in italiano, se vedete Shogun con il doppiaggio). La serie fa parlare in inglese i personaggi che nella storia parlano in olandese o in portoghese. Sentiamo parlare il pastore spagnolo Rodriguez – seguiteci – in inglese con accento spagnolo, quando, nella finzione della serie, sta parlando portoghese con intercalari spagnoli e giapponesi, un guazzabuglio più complicato da descrivere che da seguire in televisione.
La soluzione veloce e tradizionale sarebbe stata far parlare tutti l’inglese, ma Shogun non è quel tipo di serie: qua i padroni di casa sono i giapponesi.
Lo spettatore televisivo globale è più abituato ai sottotitoli di quanto fosse anche solo dieci anni fa, ma questo non rende la scrittura della serie meno coraggiosa. Gli showrunner Rachel Kondo e Justin Marks hanno creduto nell’intelligenza del pubblico anche per come hanno disposto la storia. Come per tutta la televisione di prestigio, guardare Shogun è un patto di fede tra chi guarda e chi scrive: gli sceneggiatori chiedono agli spettatori di avere un po’ di pazienza, promettendo che arriverà quel momento in cui tutti quei nomi, quei volti, quelle relazioni e quei riferimenti che ora non tornano, alla fine faranno clic.
Viste queste premesse, pare davvero complicato negare il rapporto, vistoso, che lega Shogun al Trono di spade. Entrambe le serie propongono una storia corale dai ritmi posati, dalle grandi battaglie, dalle metropoli in CGI, per raccontare, a partire dal titolo, la lotta per il potere feudale. Vorremmo poter dire che Shogun coglie solo i grandi pregi narrativi della serie HBO, tralasciando l’ormai macchiettistico sensazionalismo della violenza e del sesso, ma Shogun recupera pure quelli, in una operazione di riproposizione degli stilemi del Trono di spade che pare quasi fatta a tavolino.
Metafore sobrie, come s’addice agli Shogun
Entrambe le serie lavorano sul lato visivo concedendosi qualche metafora qua e là ma con sobrietà ed eleganza. Come fu Sean Bean, la vera star di Shogun è il lord Toranaga di Hiroyuki Sanada, volto ricorrente dell’azione hollywoodiana, finalmente alle prese con un ruolo maturo, che in passato appartenne nientepopodimeno che al divino Toshiro Mifune. Sanada ha lavorato a Shogun anche in veste di produttore ed è stato il tramite degli showrunner per la cultura giapponese.
La vera differenza tra il Trono di spade e Shogun si giocherà sulla durata. Shogun dispiega la materia narrativa lentamente ma avrà solo dieci episodi per portarla a una conclusione soddisfacente. Il materiale si presta evidentemente a una storia più lunga ma chissà che la brevità non possa giovare a FX. Presto scopriremo se la sbornia da dramma politico medievale è stata smaltita e se una katana impugnata a due mani può tagliare a fondo quanto l’acciaio di Valyria.
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