L’appuntamento è nella hall del reciproco albergo. Giulia Innocenzi, t-shirt verde militare, pantaloncino a righe colorate e lunga treccia bionda, propone di sederci ai tavolini all’aperto sotto l’ombra di un albero prima di dirigerci verso la masterclass di Susan Sarandon. L’attrice di Hollywood è stata tra i giurati del Riviera International Film Festival, lo stesso dove la giornalista ha presentato Food for Profit, documentario realizzato insieme a Pablo D’Ambrosi in cui mostra il collegamento tra industria della carne, lobby e potere politico. Un’inchiesta lunga cinque anni è lastricata di ostacoli fatti di diffide e intimidazioni.
Ma nulla è riuscito a fermare l’interesse del pubblico, il passaparola, il senso di “comunità” che si è creato attorno al documentario. Un successo al botteghino – capace anche di spodestare Dune 2 dal gradino di film più visto – proiezioni al Parlamento europeo e italiano e la messa in onda, lo scorso 5 maggio, di alcune parti in prima serata su Report. “Penso che Food for Profit sia un servizio pubblico perché denunciamo un sistema”, racconta Innocenzi a THR Roma.
Un film dell’orrore, dove però tutto è vero.
Sì. Ricevo tantissimi messaggi di gente che mi dice di aver smesso di mangiare carne o che è diventata vegana dopo aver visto il film.
Che effetto le fa sapere che il suo lavoro ha una ricaduta simile sulle persone?
Quello che mi ha più colpito è che è come se si fosse creata una specie di comunità intorno al film. È diventato qualcos’altro rispetto a un normale documentario. Infatti anche noi adesso ci stiamo impegnando a portare avanti iniziative che vanno oltre. Abbiamo pubblicato un video in cui abbiamo portato Marco Mazzoli, conduttore de Lo Zoo di 105 e vincitore de L’isola dei famosi nel 2023, in un allevamento intensivo di suini. Abbiamo voluto avere il filtro degli occhi di chi riesce a parlare a tantissime persone come lui e stiamo raggiungendo il milione visualizzazioni solo su Instagram. È quello che vogliamo continuare a fare: aprire questi luoghi e fare informazioni su questi temi. Nel mentre ogni giorno succede qualcosa.
Ad esempio?
Dopo che Food for Profit è andato in onda a pezzi su Report, il ministro Lollobrigida ci ha attaccati. Così noi abbiamo risposto punto su punto. Ormai è diventata una cosa che ha una sua vita post film e che è anche staccata dal film stesso. Vogliamo portare avanti queste iniziative anche grazie alle donazioni che stiamo ricevendo. Su GoFundMe abbiamo superato 50.000 euro di donazioni. Li avevamo messi come obiettivo per coprire le spese di distribuzione, produzione, eccetera. Adesso tutto quello che stiamo raccogliendo è solo per fare investigazioni in questi luoghi.
Da una parte c’è questa comunità di persone che vuole rispettare tutti gli esseri viventi, dall’altra lei mostra anche un essere umano bassissimo. Quelle immagini di violenza gratuita l’hanno fatta riflettere sulla natura dell’essere umano?
Purtroppo ormai è da un po’ di tempo che ci rifletto. È da dieci anni che faccio inchieste su questo tema e mi piacerebbe pensare che, come dice il ministro, sono casi singoli. Mele marce che, una volta buttate vie, lasciano il cesto sano. Non è così. Secondo me succedono questi episodi di violenza e sfruttamento nel momento in cui un essere senziente viene spogliato di tutte le sue caratteristiche, condizioni etologiche. Non lo si può rispettare in quanto tale perché altrimenti non lo potresti proprio allevare e farlo rientrare all’interno di questo sistema produttivo.
Chi ci lavora dentro deve totalmente dissociare quell’animale dal suo essere, deve essere alla stregua di un bullone di una catena di montaggio. Perché altrimenti non riuscirebbero mai a fare il lavoro che fanno. E quindi perpetrano ancora più violenza di quella dell’allevamento intensivo. Ma ci sono tantissimi episodi che mostriamo anche in Food for Profit di una violenza superiore, perché chi lavora lì dentro ha bisogno di sentire che quelli non sono esseri senzienti. E quindi ne abusa ancora di più per poter andare avanti lui stesso in quella vita.
Il fatto che Food for Profit sia stato mandato in onda a pezzi in prima serata su Rai 3, dopo le diffide e le intimidazioni, è un atto di coraggio?
Assolutamente sì. Ma infatti il luogo dove è andato in onda è Report. Sigfrido Ranucci aveva visto il documentario ancora prima del successo nelle sale e mi aveva detto quanto gli fosse piaciuto. Il fatto che siamo riusciti a mandarlo in onda per me è stato un ulteriore motivo di orgoglio. Perché io stessa faccio parte della squadra di Report ed è ormai uno degli ultimi luoghi di un giornalismo veramente indipendente che nonostante le pressioni – perché ce ne sono tantissime e Ranucci le deve fronteggiare tutti i giorni – va avanti a testa alta a fare quello che deve fare come servizio pubblico. Penso che Food for Profit sia un servizio pubblico perché denunciamo un sistema.
È preoccupata per quello che potrebbe accadere al giornalismo in questo momento storico?
Beh sì, ma per tanti motivi. E l’ultimo ovviamente sono queste pressioni politiche che portano i giornalisti a scioperare. Stiamo vivendo un periodo di tantissimi scioperi, uno dietro l’altro. Il livello dei guardia è altissimo. A me quello che preoccupa sempre di più, perché lo vivo sulla mia persona, non sono tanto le pressioni politiche – che ci sono – ma quelle economiche. Uno le sottostima sempre, ma invece sono quelle più potenti perché il giornalismo d’inchiesta costa. Food for Profit, ad esempio è costato 250.000 euro, senza contare che io e di Pablo che abbiamo lavorato gratuitamente per tutti questi anni.
Si torna sempre ai soldi.
Tendenzialmente quasi tutti i gruppi editoriali si basano sui soldi della pubblicità. E ovviamente questi inserzionisti commerciali – cioè le grandi aziende – nel momento in cui viene fuori un’inchiesta su di loro usano la leva dell’investimento pubblicitario per minacciare di toglierlo. Cosa che è successa anche con delle mie inchieste: dei grandi marchi hanno tolto la loro fetta di pubblicità. E questa purtroppo è la più grande pressione che c’è e che porta i direttori o gli editori a bloccare certe inchieste. Quindi poi i giovani giornalisti si trovano privati dei loro strumenti per poter fare delle inchieste e questa secondo me è la parte più preoccupante di tutta la storia. Anche perché il giornalismo ha sempre meno soldi derivanti dall’acquisto di giornali e abbonamenti. Quindi resta un giornalismo al ricatto di questi grandi gruppi economici.
Ha mai avuto paura? Si è mai domandata: “Chi me l’ha fatto fare?”
Un sacco di volte (ride, ndr). Anche perché con l’ennesima porta chiusa in faccia, con l’ennesimo “No” puoi essere portato anche a mettere in discussione il tuo lavoro. L’importante per me non era neanche il risultato raggiunto ma chiudere questo documentario. Perché era giusto farlo. Per rimanere con la schiena dritta bisogna essere convinti che quello che fai sia giusto per te. A quel punto vale portarlo a termine.
Giovanni Minoli ha detto a THR Roma che oggi i giornalisti “sono diventati i protagonisti della tv con la loro faccetta per fare capoccella”. Cosa ne pensa?
Questa cosa è stata super amplificata dai social e dalle tv che hanno bisogno di personaggi per questo dibattito continuo che c’è in televisione h24 su qualunque canale a qualunque ora. E sicuramente c’è un giornalista che deve parlare di qualcosa e più è personaggio, più sarà invitato. È un cane che si morde la coda. Il giornalismo vive di un’autoreferenzialità pazzesca dove professionisti con un grande ego coltivano la propria persona. Quando commentano qualcosa in realtà parlano più di sé che non del fatto.
Qualche giorno fa c’è stato il Met Gala. Lo stesso giorno Israele entrava a Rafah. In molto hanno sottolineato quanta copertura mediatica c’era intorno all’evento rispetto alla tragedia del popolo palestinese.
Se ogni giorno della nostra vita dovessimo pensare a tutto quello che succede nel mondo non camperemmo più. E quindi parte una deriva contraria, chiudersi all’interno di una bolla dove non vuoi sapere niente di quello che succede e non viene dato neanche il giusto peso alle cose. Questi eventi sono delle grandi armi di distrazione di massa che servono anche per far sì che le persone non debbano pensare alla realtà delle cose. Ci vorrebbe un giusto peso al tutto che purtroppo, anche con i social, un po’ si perde. Hanno aggiunto un filtro: se parli di cose politiche l’algoritmo ti ammazza il contenuto. Cosa vogliono? Che cresciamo tutti lobotomizzati? La politica è una cosa bellissima e noi stessi con Food for Profit facciamo politica perché ci rivolgiamo alle istituzioni e portiamo avanti delle proposte politiche. Ci vogliono portare avanti non più come cittadini ma come consumatori che sanno solo cliccare su “Mi piace” e contenuti più stupidi.
L’informazione è sempre meno neutra. Un cittadino medio guarda il telegiornale e pensa di ascoltare la verità.
Guardo sempre il Tg1 e il Tg2. E lo faccio appositamente perché è lì dove c’è l’interesse della politica. Dalla scaletta delle notizie, da come vengono date, da quale notizia segue un’altra capisci dove il governo vuole andare a parare. Lo faccio come esercizio, me lo ha insegnato Michele Santoro. Anche lui ha sempre guardato i telegiornali proprio per vedere dove vanno gli interessi del governo e quale sarà la sua strategia per portare avanti una certa attenzione su alcune notizie. Purtroppo chi non ha gli strumenti ovviamente si guarda il telegiornale cercando semplicemente una fonte autorevole. E in tanti ci giocano.
C’è una storia che vorrebbe raccontare e che spera di riuscire a portare al pubblico?
Il mio sogno sarebbe poter raccontare il pericolo rispetto alla sanità pubblica e alla sanità in generale con lo strapotere delle case farmaceutiche. È il tema più difficile che c’è da raccontare perché ti massacrano quando provi a mettere in discussione la sanità o la scienza governate dalle case farmaceutiche. Subisci una character assassination ed è impossibile. Lo strapotere è troppo forte e se provi a raccontare qualcosa hai una risposta che ti sotterra. Una delle mie serie preferite non a caso è Dopesick. È una storia incredibile che racconta anche dell’emergenza del Fentanyl che sta arrivando anche da noi.
Cosa ci aspetta come cittadini?
Fra le elezioni americane e anche quelle europee non ci sarà un bel quadro mondiale. Da noi ci sarà un Parlamento europeo a maggioranza di destra e quindi per i temi ambientali vuol dire semplicemente affossarli. La prossima legislatura dovrà fare delle scelte importanti, per esempio la nuova politica agricola comune che è la voce di budget più importante dell’Unione Europea. Si deciderà se dovrà essere un’agricoltura pulita oppure un’agricoltura inquinata come quella di oggi. E poi gli Stati Unit: alla fine chi vuole un mondo con meno guerre si troverà a votare Trump. Sembra paradossale e invece è così. Comunque vada non sarà un bel risultato.
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