Giovanni Minoli: “Vorrei intervistare Papa Francesco. Se incontrassi Netanyahu oggi? Lo farei arrabbiare ancora di più”

“Un torinese che diventa re di Napoli è il rovescio della storia. Restituiamo quello che i Savoia hanno tolto”. Parla il giornalista insignito della cittadinanza onoraria a quasi trent'anni dalla creazione di Un posto al sole. Che sulla crisi dell'informazione afferma: “Purtroppo i social hanno portato dal noi all'io. È diventato il protagonista”. L'intervista di THR Roma

“Ma io di cinema non so nulla”. Esordisce così Giovanni Minoli quando THR Roma lo incontra nella sua casa, non troppo lontano da Piazza Navona. Due cartonati campeggiano nella libreria all’ingresso. Uno dedicato a Mixer, l’altro a La Storia siamo noi. Programmi tv rivoluzionari che hanno modificato il modo di intendere l’informazione e l’intrattenimento televisivi. Alla base del loro successo un intuizione semplice quanto acuta: il ritmo. La stesso che Minoli ha innato. Basta una parola, uno sguardo, un gesto. Dentro c’è tutto.

Produttore di cult come Quelli della notte di Renzo Arbore o Blitz di Gianni Minà, Giovanni Minoli è anche il nome dietro ad un altro successo tv: Un posto al sole. La soap opera di Rai 3 ambientata a Napoli e basata sull’australiana Neighbours nasce infatti grazie all’idea dell’allora dirigente Rai. Quasi trent’anni dopo il sindaco della città, Gaetano Manfredi, conferisce al giornalista la cittadinanza onoraria – “Un torinese che diventa re di Napoli è il rovescio della storia. Restituiamo quello che i Savoia hanno tolto” – in una cerimonia tenuta al centro di produzione Rai di Napoli nell’Auditorium Scarlatti.

Giovanni Minoli e parte del cast di Un posto al sole

Giovanni Minoli e parte del cast di Un posto al sole

Il fatto che la richiesta dell’onorificenza arrivi da artisti e intellettuali la rende orgoglioso?

Questo è l’orgoglio base, il fatto che chi ha lavorato o analizzato Un posto al sole abbia scritto questa lettera al sindaco di Napoli chiedendo di darmi l’onorificenza. È un onore massimo. Soprattutto per me che sono torinese. Un torinese che diventa re di Napoli è il rovescio della storia. Restituiamo quello che i Savoia hanno tolto.

Ha dichiarato che da qualche anno non lo segue più.

Ho un rapporto complesso avendolo inventato, pensato, ideato. Nel tempo con l’evoluzione, dato che non su tutto posso essere d’accordo, si è creato un sentimento di amore e odio.

Secondo lei per quale motivo ancora oggi continua a godere di ottima salute?

Perché le cose sono come nascono. Tutte. E quindi, dato che è nato bene, non riesce a essere distrutto.

Nella sua carriera ha rivoluzionato il modo di raccontare l’informazione in tv. La Storia siamo noi ne è un esempio.

L’ho fatta con un amore assoluto e c’è un rapporto fra quel programma e Un posto al sole. Perché attraverso quest’ultimo ho imparato un metodo narrativo che ho applicato a La Storia siamo noi, quello del telefilm americano. Infatti i ritmi del programma erano gli stessi. Ed è per quello che sono stati così efficaci e duraturi.

Di tutte le storie che ha raccontato, ce n’è una che l’ha ossessionata e alla quale continua a pensare?

Dipende dall’emozione del momento. Dato che copriamo praticamente le date dei 365 giorni – nascite, morti, eventi, eccetera – a seconda di come l’evento di cui parliamo prende o perde peso nella storia di quell’anno, naturalmente la cosa viene in prima linea o meno. Quando siamo riusciti a far istituire la giornata delle foibe è stato un bel successo. In Italia non se ne poteva perché c’era l’embargo. Faccio un esempio ma ne posso fare mille. Come con la Moby Prince, un racconto che ha acceso un faro su un problema. Stessa cosa per il caso Moro.

Anni fa hai intervistato Netanyahu, facendolo arrabbiare parecchio. Se oggi potesse intervistarlo di nuovo?

Lo farei arrabbiare di più.

Qual è la prima cosa che gli chiederebbe?

Non glielo dico, ma gli farei sentire quello che diceva lui. Quando mi ha detto che era favorevole a due stati e due popoli. Penso che sia definitivo.

Giovanni Minoli

Giovanni Minoli

C’è un personaggio storico che avrebbe voluto intervistare?

Dato che non era possibile no. Mi interessa fare le cose che si possono fare.

E oggi chi vorrebbe intervistare?

Vorrei intervistare Papa Francesco. Ma sul serio però.

Crede non si sia andati abbastanza a fondo?

No. Ho studiato tutta la mia vita dai gesuiti, quindi li conosco perfettamente e mi sono interrogato sul perché per duemila anni la Chiesa non abbia mai fatto Papa un gesuita. E in fondo vedendo Papa Francesco l’ho capito.

Perché, dunque?

Perché i gesuiti sono l’ufficio studi dell’umanità. Ma non sono fatti per comandare. Sono fatti per pensare, per essere dei leader di pensiero nelle arti, nella scienza, nella politica, nel costume. Ho assistito quando Giovanni Paolo II è sceso in visita a Managua, in Nicaragua. Incontrò Daniel Ortega che aveva appena fatto la rivoluzione e aveva vinto. Aveva come ministro della cultura un Gesuita, Ernest Cardenal. Gli si è avvicinato, gli ha dato due schiaffi e ha detto: “Fuori da questo governo”. Ecco, avere l’idee chiare.

Ha perso suo padre quando era un ragazzo. Disse: “Quel giorno sono morto anch’io. Per due anni sono stato in apnea”. Come ha fatto ad imparare a respirare di nuovo?

È stato l’amore per Matilda (Bernabei, ndr) che mi ha insegnato a respirare da morto. C’è una gratitudine eterna, al di là di tutto quello che può capitare fra di noi. Una gratitudine definitiva. Credo che sia l’unico per sempre che si può dire in un matrimonio.

Il mondo dell’informazione oggi attraversa una crisi drammatica. Dall’analogico al digitale, passando attraverso i social e le fake news: come si fa a mantenere la barra dritta? È responsabilità di noi giornalisti o anche chi si trova davanti uno schermo?

Tutti e due. Purtroppo i social hanno portato dal noi all’io che è diventato il protagonista. Perfino il capo dei Cinque Stelle ha detto che “Uno vale uno” era una cazzata.

Giovanni Minoli

La storia siamo (anche) noi

Crede che i giornalisti siano diventati un po’ troppo star?

Star? A me sembrano dei poveracci.

Non si mettono un po’ troppo in mostra?

Certo, perché i giornali della carta stampata sono morti. Quelli più importanti, per salvarsi, hanno scoperto la televisione che odiavano e che consideravano un mezzo minore. Oggi, invece, sono diventati i protagonisti della tv con la loro faccetta per fare capoccella. E infatti non servono in niente.

E lei oggi la guarda la televisione?

Io la televisione la guardo sempre perché è il mio lavoro.

Cosa le piace?

Le serie.

Quali guarda? Italiane o straniere?

Tutto. Se guardasse con attenzione Fauda capirebbe meglio cosa capita nel Medio Oriente rispetto a sentire cento programmi sulla lotta fra Israele e Hamas.

E la Rai di oggi le piace?

“Le piace” è un parolone.

E cos’è che secondo lei dovrebbero sistemare?

Appena mi chiedono di farlo, lo faccio.

Non tutte le interviste sono andate sempre benissimo.

Mi è capitato addirittura di andare fino negli Stati Uniti da Ted Kennedy, che era un po’ un mito. Alla fine della chiacchierata preparatoria ho capito che non voleva parlare dell’incidente di Chappaquiddick. Gli ho detto: “Senta non importa. Non abbiamo niente da dirci”.

E lui?

“Ma come?”. Ma la sua vita era legata a quello. Non ha fatto il presidente degli Stati Uniti perché non ha avuto il coraggio di dirsi colpevole.

Nella sua carriera ha conosciuto moltissime persone e fatto altrettante interviste. Crede che questi incontri l’abbiano resa un uomo migliore?

(Qualche secondo di silenzio, ndr). Non so. Lo lascio dire agli altri.