Pierpaolo Spollon: “Vorrei essere il nuovo Alessandro Cattelan, ma piango ancora davanti a L’ultimo dei Mohicani”

Uno dei volti nuovi della serialità televisiva italiana si apre con The Hollywood Reporter Roma. Torna a essere il mitico specializzando Riccardo Bonvegna nella serie più amata, dall'11 gennaio 2024 su Rai Uno con la terza stagione. "Nel mio futuro ancora tv, ma sogno il cinema. Da regista"

Pierpaolo Spollon, che fosse bravo, ce l’aveva dimostrato già a fianco di Lino Guanciale, prima ne L’allieva, poi ne La porta rossa.

Faccia da schiaffi, capacità di giocare su più registri e così per i più attenti spettatori televisivi non è stato una sorpresa quando ha dato vita a Riccardo Bonvegna in Doc. Quello specializzando che sta a John Carter come Luca Argentero a George Clooney (ER – Medici in prima linea quanto ci manchi) è stato uno dei motivi dell’enorme successo di una serie che ora arriverà persino negli Stati Uniti e che dall’11 gennaio 2024 partirà con la terza stagione su Rai1 (e che per l’ennesima volta diverrà il titolo più visto su Raiplay).

Nel frattempo questo ragazzo (classe 1989, ottima annata) ci ha fatto innamorare con Filippo in Odio il Natale, ridere con Emiliano in Che Dio ci aiuti, incazzare con Nanni, anzi Sebastiano in Blanca e sui social ci conquista con una serie di gallery, montaggi e status rari nel nostro star system audiovisivo, per autoironia e arguzia. Le stesse che ci hanno fatto appassionare e commuovere a teatro, con il suo Quel che provo dir non so.

Lo abbiamo incontrato sul set della terza stagione di Doc – Nelle tue mani, parlando di tutto, da Alessandro Cattelan a Italo Calvino.

Ha perdonato Cattelan per aver introdotto la sua intervista nella sua trasmissione con la canzone Spollon combinaguai?

Ovviamente no, come avrei mai potuto? Scherzi a parte, da lì è nata una bellissima amicizia, ci sentiamo spesso, ovviamente per colpa e merito della nostra amata Inter. Per me quel momento di tv è stato un privilegio, Alessandro è un punto di riferimento per talento e capacità. E, ti dirò, mi incuriosisce da morire scoprire, un giorno, cosa voglia dire condurre un programma, è una di quelle esperienze che vorrei davvero fare.

E poi abbiamo un’affinità elettiva, spesso ho idee che ritrovo in cose sue, senza che gliene abbia parlato (succedeva anche prima di conoscerci), in tv o in teatro. Ovviamente meglio di come potrei realizzarle io.

Mi faccia un esempio.

Ho immaginato un format con un ospite che parlava della musica che avrebbe voluto al suo funerale ed ecco che arriva Salutava sempre, il suo bellissimo one man show a teatro dove lui invita gli spettatori al suo funerale e c’è una parte importante dedicata proprio alla playlist da cerimonia.

Capisci quindi che scambiarci commenti sulla nostra squadra del cuore o mandarci gif assurde per me è fichissimo. Ma poi dopo la serie su Netflix è proprio diventato la persona con cui vorrei addormentarmi la sera.

Ha queste due qualità pazzesche che amo: l’essere sempre fedele a se stesso e l’essere propositivo, sempre proiettato verso il futuro e poco nostalgico.

Come lei?

Ma scherzi, io sono uno da Techetechetè, sono un collezionista di accessori vintage, di vinili.

Quando ha capito che Pierpaolo Spollon era diventato the next big thing della serialità televisiva italiana? Uno da Cattelan appunto?

Ma che ne so, peraltro diciamocelo che dopo di me da lui sono andati cani e porci! Però ogni tanto vado a vedere quelli che non ha chiamato e allora mi tiro un po’ sul morale. Sto scherzando Ale, ovviamente.

Ma poi quale next big thing, sono stato sfortunato, sono convinto che lui mi abbia visto a Boomerissima e capito subito che sono un minchione. E allora ha detto ‘ma sì, chiamiamolo, questo è abbastanza deficiente, ci divertiremo’. E poi, siccome lì mi han fatto dire due cose sensate in fila, magari ha voluto pure vedere se dietro quest’apparenza da cazzone ci fosse una testa pensante.

Ovviamente ha capito che non l’avevo, che mento spudoratamente sulla mia intelligenza.

Che meraviglia, è bello, simpatico e umile. Cattelan, ovviamente. Insomma, allora almeno mi dica dove nasce la sua passione per la recitazione.

Sul divano, con mia madre. Vedevamo, soprattutto la domenica, tantissimi film e poi la mattina mi cercavo i Totò che mandavano sulla Rai, mentre nel pomeriggio consumavo le videocassette.

Uno dei miei ricordi più vividi di quelle ore passate a vedere cinema di ogni genere è il sottoscritto che piange come una fontana davanti a L’ultimo dei Mohicani. Ed ero imbarazzatissimo, perché stavo piangendo davanti a mia madre, mentre lei mi diceva che era bellissimo che stesse succedendo.

Lì ho capito, lì mi sono reso conto che un’arte così meravigliosa che ti emoziona così tanto è qualcosa di speciale. Ecco, quel lato bambino è sempre lì, anche nello Spollon attore. Quel figlio unico, un po’ solitario, con i genitori gran lavoratori e tanto tempo per emozionarsi davanti a uno schermo, è rimasto tale e quale.

Ho coltivato questa passione intimamente, come spettatore, ma anche nel desiderare di diventare attore, pur non avendoci mai creduto.

E poi cos’è successo? Come è diventato attore?

Per sbaglio, il destino mi ha dato una possibilità. Nata dal fatto che ero stato bocciato e Carlo Mazzacurati ha avviato un casting nella mia scuola dove cercavano ragazzi fino alla terza. E io c’ero rimasto in terza, ringraziando Dio!

Non la ricordo in quel piccolo capolavoro. Ricordo una meravigliosa Valentina Lodovini, ma non lei.

Infatti, alla fine non mi hanno preso. Ma quel provino mi ha acceso qualcosa dentro. E, perché le botte di culo servono, è rimasto in giro. E lo ha visto Alex Infascelli – sì, lo so, sono un miracolato – che mi ha chiamato per fare la mia primissima cosa, la miniserie tv Nel nome del male.

Una delle cose per cui mi vergogno di più.

Perché?

Ero chiaramente inadatto, inabile. Alex mi disse una cosa che mi rimase impressa: “fai benissimo le cose difficili e sei un cane in quelle facili”. Aveva ragione, ero un cane vergognoso. Ma ero un liceale senza alcuna idea di cosa fosse recitare.

Fu però fondamentale per capire che dovevo studiare, perché per quanto a me piaccia umiliarmi, non mi piaceva così da tanto da riprovare quella sensazione di inadeguatezza.

Pierpaolo Spollon, il dottor Bonvegna in Doc

Pierpaolo Spollon, il dottor Bonvegna in Doc

Se uno guarda i suoi social o legge una sua intervista trova autoironia surreale, talento per la commedia, un Monty Python mancato. Poi la vediamo recitare e ci troviamo personaggi con un abisso dentro.

Torniamo a mia madre, che mi ha sempre insegnato a fare attenzione alle emozioni, io amo la leggerezza ma non la superficialità. Amo la leggerezza nell’accezione in cui la intendeva Italo Calvino, quel sorriso che si appoggia su una certa profondità.

Le mie esperienze le ho fatte e ne ho fatto tesoro, così credo di poter parlare entrambi i linguaggi, è quello che provo a dire, a mostrare nel mio spettacolo teatrale, che ho scritto con Matteo Monforte e interpretato, Quel che provo dir non so. Che non parla dell’alessitimia, l’analfabetismo emotivo, la patologia che non ti permette di riconoscere le tue emozioni. Ma pure un po’ sì, partendo da me stesso e il mio rapporto conflittuale con quest’ultime arrivando alla difficoltà che hanno i giovani oggi nel capire ciò che provano.

Le piacciono le cose facili, insomma.

Il 70% dei casi di depressione è dovuto al fatto che i giovani oggi non riescono a riconoscere le loro emozioni.
Io ho letto questa cosa e ho sentito il bisogno di raccontarlo, di essere d’aiuto. E ho pensato che dovessi partire da me, dalle mie prime emozioni. Ovviamente tutte umilianti, quindi come sempre anche sul palco mi faccio deridere.

Non sarà troppa questa sindrome di Calimero?

Ok, la smetto. Vuole essere una piccolissima analisi dell’emotività, di chi siamo, di due o tre cose che dobbiamo sapere su di noi, un modo di dirci l’un l’altro “ok, attenzione, sediamoci, fermiamoci, prendiamoci un po’ di tempo per fare attenzione a ciò che ci succede e a come lavora dentro di noi, cosa ci porta”. Ecco, come sempre divento logorroico, questa intervista verrà una Spolloneide!

Mi sembra un ottimo lavoro preparatorio per molti suoi personaggi. In particolare Bonvegna, uno che dopo due stagioni di Doc non ne ha azzeccata una di sua emozione. E pure nella terza non sembra proprio sulla strada giusta.

Mi diverto molto a caratterizzare i personaggi, anche per portarli altrove, riuscire a farli andare fuori dalla loro comfort zone. Bonvegna è un underdog, è uno che si è costruito una corazza ma che in realtà ha una sensibilità scopertissima, è fragile. Ha la capacità di passare in mezzo all’inferno, a volte di renderlo persino peggiore, e sopravvivere.

Una specie di Dylan Dog.

Che poi un po’ lo sono anche nella vita. Non nel cambiare fidanzata ogni mese, sia chiaro. Vabbé, mi sto incartando, questo non lo scrivere. Però lui è un personaggio che sa riconoscere sin troppo le sue emozioni, che non ha paura di farsi persino comandare da loro, di finire nei guai per non saperle, né volerle ignorare.

Vale anche per me, non ho paura di perdermi in una valle di lacrime così come di innamorarmi, allo stesso tempo faccio spesso casino proprio perché non ho tante protezioni di fronte a ciò che provo.

Mi faccia un esempio.

Per dire, io sono timido. Ma nessuno se ne accorge. Eppure se devo conoscere un collega che stimo, se devo presentarmi a un produttore, io sudo. Tanto. Forse ho solo un problema di traspirazione della pelle, ma ho letto che ne soffre anche Joaquin Phoenix.

Non di questa sudorazione, ma di questa tensione da timidezza, lui per esempio comincia a battere ossessivamente i tacchi e devono, anche sul set, mettergli delle coperte sotto i piedi.

Pierpaolo Spollon è il Joaquin Phoenix italiano?

E dai, ma ovvio che no! Però lo amo, perché è questo contatto profondo con la parte più scoperta e oscura di sé che lo porta a fare un’operazione assurda e geniale come Joaquin Phoenix – Io sono qui! un automockumentary su un suo presunto addio al cinema per diventare un rapper in cui riesce a fottere persino David Letterman. Un’opera che racconta delle storture della fama più di qualsiasi trattato e che non si sarebbe potuto fare senza un uomo con la sua anima.

Sto pensando a Phoenix che parla con Andrea Fanti. Ricapitoliamo: Bonvegna nella prima stagione è un eroe teen che improvvisamente diventa uno dei protagonisti del Gus Van Sant più pop. Nella seconda stagione vive la sua fase Phoenix, ossessivo-compulsiva, una tragedia sociopatica. Ancora mi sto asciugando le lacrime.

In questa terza stagione cosa dobbiamo aspettarci?

Qualcosa di ancora diverso, ma, ti assicuro, ti farò ancora piangere. Lo ritroviamo dopo che ha litigato con Doc, con tutti, e che però vuole rientrare nella squadra consapevole dei problemi che ha avuto, come workaholic e come uomo che ha perso tutto, soprattutto sentimentalmente.

Sa che dovrà recuperare il rapporto con gli altri, la posizione lavorativa, il rispetto per se stesso, sa anche che è un percorso duro da affrontare, con piccone e ferri sotto le scarpe e che si trova nel mezzo di un cammino difficilissimo.

Non è davvero prevedibile capire cosa gli accadrà e come. Ed è uno dei motivi per cui non ho avuto alcuna paura ad accettare di nuovo di tornare nei panni di Riccardo Bonvegna.

Blanca, Odio il Natale, persino Che dio ci aiuti e ovviamente Doc 3. Anche se nel primo è morto, non ha paura che questo successo la possa rendere una figurina? Magari una delle più pregiate dell’album, ma pur sempre una figurina.

Per questo io rompo tanto le palle per non rimanere sempre lo stesso personaggio. Perché è meglio lasciarlo che farlo diventare una brutta copia di quello che è stato. Per quanto possa essere rassicurante tornare a fare ciò che hai imparato e farlo sempre meglio, se ti siedi sulla ripetizione non riesci a crescere.

Ecco allora che in Doc mi godo un personaggio che ha un sottobosco di emozioni e sfaccettature drammatico ma positivo mentre in Blanca sembro, anzi sembravo, anzi sembrai un superpirla e pure un po’ cattivo.

Scegliere due ruoli molto diversi è facile, più difficile è cambiare all’interno della stessa caratterizzazione. Per me è una necessità, altrimenti dopo un po’ mi blocco, la fantasia non mi funziona più.

Come nella vita, devi sempre aggiungere qualcosa, devi sempre imparare, altrimenti ti fermi. C’è una scena in Doc 3 (quella nella foto qui sotto – ndr) sul nostro famoso tetto, in cui Argentero, il dott. Andrea Fanti, mi dice “se uno non fa tesoro di quello che ha vissuto, non va mai avanti”. Ecco, questo è il principio su cui mi piacerebbe poggiasse ognuno dei miei lavori.

Pierpaolo Spollon e Luca Argentero in Doc 3 sono Riccardo Bonvegna e Andrea Fanti

Pierpaolo Spollon e Luca Argentero in Doc 3 sono Riccardo Bonvegna e Andrea Fanti

C’è un regista che pensa potrebbe aiutarla a seguire questa sua inclinazione?

Mi viene in mente Joshua Oppenheimer, che ha fatto questi due documentari meravigliosi: The Look of Silence e The Act of Killing. In quest’ultimo prende il protagonista, che ha fatto delle cose terribili e senza che se ne accorga gli fa fare un percorso psicoterapeutico: gli fa rivivere le sue azioni, i suoi orrori, dai campi di concentramento in Indonesia agli assassini feroci che ha compiuto e ordinato.

Quando tutto quest’orrore gli è chiaro, lui vomita, si rende conto per la prima volta di chi è. Ecco, un arco narrativo, umano, emozionale così sarebbe qualcosa di straordinario per come io considero l’essere attore.

Bonvegna in qualche modo cerca costantemente un percorso in cui riconoscere se stesso, senza riuscirci.

In lui c’è sempre una mancanza. All’inizio è la gamba, la sua incapacità di accettarsi. Poi è l’amore: lo trova, lo perde, lo allontana e quando capisce quanto è importante, tutto si spezza, dentro e fuori.

Inizia ad aprirsi agli altri nella prima stagione, nella seconda li perde. Mi affascina, di lui, che deve sempre ricominciare, perché non ha mai imparato a stare bene con se stesso. E quando recito, quando parlo con il regista o chi scrive, non chiedo più pose, ma di poter scavare anche con una sola parola, un solo gesto, in quelle assenze, in quel dolore, in quella ricerca.

Io sono uno che ama obbedire sul set, ma allo stesso tempo anche di capire, di lavorare con tutti per fare sempre meglio. Penso a Odio il Natale, c’è stato un bel clima tra tutte le parti creative ed artistiche per far sì che anche io e Pilar Fogliati potessimo intervenire, potessimo indirizzarlo i base alle nostre sensibilità.

Sono un fan di Doc. Sa che sogno una decima stagione in cui il primario sia Riccardo Bonvegna, vero?

Ma io ci penso eh, perché nei momenti di delirio attoriale ti dici “ma dove andrà a finire questo tipo?”. E non so, potrei anche dirti che qualcosa in merito potremmo aver seminato, in questa terza stagione.

Il punto è che ora ho davanti Damiano Cesconi (Marco Rossetti, il cattivo buono della seconda stagione) e che in una cosa assomigliamo alla sanità italiana reale: nel fatto che dopo tre anni sono ancora uno specializzando! Senior, ma sono ancora nelle retrovie! Mi serve una raccomandazione degli sceneggiatori.

Uscendo dallo scherzo, se vogliamo come serie e come personaggi evolverci, ovviamente dovremo trovare gli stessi salti di qualità che abbiamo avuto finora. Il punto è che tocca fare attenzione, lo dice sempre Luca: attenti a essere troppo ambiziosi che qui è un attimo che sei fuori.

Lo scorso anno è morta Alba (Silvia Mazzieri, alzi la mano chi non porta ancora il lutto – ndr), sul decesso del buon Lazzarini e come è avvenuto ci abbiamo passato le ultime 16 puntate, Gabriel Kidane ha capito l’antifona e se ne è andato con le sue gambe, così come Elisa Russo (Simona Tabasco, con Beatrice Grannò, altra star della serie, scritturata da The White Lotus).

Le mancano? Iniziare insieme un’avventura così fortunata e poi perderli per strada non deve essere facile.

Eh, ma torneranno in questa terza stagione, benedetti siano i flashback. Io, poi, sono per il ricambio generazionale, ma il bello di questo Doc 3 è anche rivedere il passato da un altro lato, da un’altra angolazione. Capisco bene i miei colleghi, tutti sentiamo sempre il bisogno di cambiare, bisogna vedere se riesci a farlo all’interno della serie oppure per farlo devi andare altrove.

Se l’aspettava questo successo clamoroso?

Vado controcorrente e ti dico di sì. Quando abbiamo letto le prime sceneggiature, insieme, io non riuscivo a trattenermi e dicevo a tutti “questa serie sarà una bomba”. Da spettatore mi rendevo conto che un medical così in Italia non era stato neanche immaginato: eravamo fermi alla Dottoressa Giò, su.

E poi Luca Argentero protagonista, di un personaggio così. Io ero innamorato prima del primo giorno di set, figuriamoci quando tutti l’avrebbero visto con quel camice, quel sorriso e quel tipo di personaggio meraviglioso. Ed era la sua prima serie da protagonista!
Ma, soprattutto, torno a dirlo, la scrittura era clamorosa. Poi quando ho visto attuare le idee di regia, non ho avuto dubbi.

Ho avuto paura solo per il Covid. Mi dicevo “ma nessuno vorrà mai sentir parlar di medici e malattie, ora”. L’unico dubbio che ho avuto, insomma, è stato legato alla situazione esterna. Eravamo tutti molto spaventati, ma come sempre il pubblico si è mostrato più maturo di quello che molti di noi credono.

Ripensandoci penso abbia inciso anche il fatto che Doc non si concentra sui medici, sulle eccellenze, ma sull’ospedale, sulla vita di malati e addetti ai lavori. Infermieri, caposala, e in quel momento dovevamo tutti convogliare la nostra gratitudine verso i tanti eroi normali che c’erano.

In questa terza stagione come ci stupirà Riccardo Bonvegna?

Questa stagione per me è delicatissima, mi hanno dato altre linee narrative che sono al contempo un rischio e una sfida. Ho cercato di metterci più ciccia possibile, di impegnarmi al massimo, quando ho potuto ho chiesto sempre un take in più: ho voluto fare la differenza, valorizzare il lavoro degli sceneggiatori.

Regalare più sfumature possibili, perché rispetto alle prime due stagioni ora Riccardo sarà più equilibrato, laddove prima gli succedeva di tutto ora si giocherà più sul campo della psicologia, delle emozioni, e mostrare tutto questo in un racconto corale non è affatto facile.

Se prima ogni ciak era una sfida, un tentativo di superarsi, in questa tornata ho dovuto seminare in ogni scena qualcosa sperando che venga colto in tutta la sua complessità il mio lavoro. Sono preoccupato ma anche contento, vedremo.

Preoccupato anche per il futuro da attore? Dopo un successo così, è difficile continuare a volare

Quello sempre, ma ci sono delle cose che potrebbero succedere in questo 2024 che mi fanno brillare gli occhi.

Cinema?

No, ancora una serie, non posso dire altro se non che è un personaggio, quello che mi hanno proposto, che va oltre tutto quello che ho fatto ora, dal comico commediante di Che Dio ci Aiuti, al romantico realista di Odio il Natale, dal bad boy un po’ pirla e un po’ profondo di Blanca, all’eroe tragico di Doc.

Sia chiaro, amo il cinema, lo sogno sempre. Ma sai come? Ancora più da regista che da attore, colpa di Michael Mann. Però c’è ancora tempo, mi porto dentro una lezione di Emanuele Crialese, con cui ho lavorato “impara a essere un bravo attore e vedrai che sarà più facile poi dirigere i tuoi colleghi”.

Quindi per convincerla a fare la quarta stagione di Doc devono darle qualche episodio da regista.

Sai che sarebbe un ottimo modo per convincermi? Sei diabolico.

Tanto Joaquin Phoenix ha detto che presto lascerà e Daniel Day Lewis si è ritirato ed è diventato un eremita. La strada è libera.

Rimane Benedict Cumberbatch, che è sul mio podio insieme a loro due. Allora, posso dirti che uno di questi tre ha fatto un personaggio
simile.

Lo sa che due su tre tengono un taccuino in cui “scrivono” il loro personaggio?

No, ma lo faccio anche io. Devo sapere tutto di chi interpreto e allora immagino la sua infanzia, i suoi studi o anche solo i suoi pensieri. Li ho in un quaderno. Per dire, se giro la scena 458 vado lì a scoprire cosa pensavo nella precedente e dove arriverò nella successiva.

Altro che Spollon combinaguai.

Sì, ma non mi dipingere troppo serioso, che tanto non ci crede nessuno.

Una delle tante scene corali di Doc 3

Una delle tante scene corali di Doc 3