Isabella Ragonese: “L’arte è politica. Voglio dare voce a chi non ha un nome”

"Credo che il mio impegno sia di rappresentare delle donne molto diverse fra loro. Non voglio combattere solo per quel che mi riguarda personalmente" racconta l'attrice, che vedremo presto al cinema con il thriller Come pecore in mezzo ai lupi. E che qui ci parla anche di Clitennestra, Letizia Battaglia e Rosa Balistreri. L'intervista con THR Roma

“Mi è capitato di dare voce a donne che non hanno un nome. Credo che questo sia il mio impegno. La cosa cui tengo di più nella diversità della rappresentazione è sperare in un mondo in cui ci sia per tutte la stessa possibilità. Se una resta indietro non è che uno può dirsi soddisfatto perché invece ce l’ha fatta”. Camicetta e salopette bianca, i capelli raccolti con cui non smette di giocare mentre parla, smalto color corallo, sguardo limpido. THR Roma incontra Isabella Ragonese pronta a tornare al cinema con Come pecore in mezzo ai lupi, esordio al lungometraggio di Lyda Patitucci in sala dal 13 luglio prodotto da Groenlandia con Rai Cinema e distribuito da Fandango.

Nel film interpreta Vera, un’agente sotto copertura che si infiltra in una banda internazionale di rapinatori di cui scopre fare parte suo fratello minore (Andrea Arcangeli, ndr). Un ruolo nuovo, diverso da qualsiasi cosa fatta in precedenza – “Mi è sembrato un regalo, mi sono detta: ‘Ma quando mi ricapita’” – che va ad allungare la galleria di donne a cui ha prestato la voce. Con una certezza: “Non voglio combattere solo per quel che mi riguarda personalmente”.

Come pecore in mezzo ai lupi non sembra un film italiano. Questo crede sia in parte dovuto alla produzione Groenlandia?

Quando mi hanno proposto il film, per me loro erano già una garanzia. Sapevo che avrei fatto una cosa che non replicava percorsi battuti. In più, a parte i loro titoli, non mi vengono in mente molti film di questo genere. La Roma che si vede, quella dell’Eur e di Laurentina, sarebbe potuta essere un’altra qualsiasi metropoli. E oltre a non venirmi in mente nessun titolo, è ancora peggio se penso a una protagonista femminile. Perché di solito un film così lo affideresti a un uomo. Forse somiglia a qualcosa di francese. Uno di quelli che avrebbe potuto fare Vincent Cassel.

Cosa l’ha attratta del film?

Non è solo un film d’azione, rapina a parte. La cosa che mi ha molto interessato era la dinamica. I film di genere stanno tornando, forse anche grazie alle piattaforme, perché per un periodo non c’è stato il pubblico. Io che non sono una grande spettatrice di questo genere, lo vedo un po’ come il jazz. Ci sono delle strutture abbastanza fisse, dentro il quale però puoi muoverti. E la cosa che mi ha colpito di questa sceneggiatura era che dentro c’era una cosa che poteva essere da tragedia greca, una scelta di quelle da dilemmi quasi senza tempo, archetipici. Il rapporto con il fratello minore, un tipo di relazione molto difficile da vedere in un film, in cui è un po’ un sostitutivo materno che lei rifiuta. Mi sembrava denso, non un semplice esercizio di stile.

Una scena di Come pecore in mezzo ai lupi

Isabella Ragonese in una scena di Come pecore in mezzo ai lupi

Il suo corpo ha un ruolo centrale nel racconto. Diverso da come l’abbiamo visto finora, è trattenuto. Come un vulcano pronto a esplodere.

Groenlandia è anche una casa produzione che ha un’attenzione enorme sulla preparazione. Ci siamo visti molto prima e abbiamo discusso anche sul look che doveva avere il mio personaggio, la sua fisicità. Un’attenzione che secondo me per un attore che ama questo mestiere è una gioia.

A livello fisico com’è stato?

Ho fatto una preparazione fisica. Anche perché solo la scena iniziale in cui faccio le trazioni è stata impegnativa. Al primo ciak ne ho fatta una e mi sono fermata (ride, ndr). Anche modificare il proprio corpo era un modo per vestire i panni di un personaggio forse non così quotidiano. È un’agente sotto copertura. Quando me l’hanno proposto ho pensato: “Ma quando mi ricapita?”.
Mi è sembrato un regalo perché è molto raro per un’attrice ricevere una proposta del genere. Il personaggio ha una complessità e mi ha permesso di lavorare su delle corde che non mi sono state tanto richieste in passato.

Il lavoro sul corpo l’ha aiutata a capire meglio il suo personaggio?

Sì, la preparazione fisica è stata anche un modo per entrare nel personaggio, nella sua disciplina, nel suo rigore, nella sua potenza trattenuta. È una che potrebbe scoppiare ma non lo fa. È una corda tesa.

Nel film lavora molto anche sulla lingua. Per essere e suonare credibili, quanto lavoro c’è dietro?

Più che le scene d’azione, la vera difficoltà sono state quelle sulla lingua. Il mio personaggio è madrelingua, sua madre è serba. È stato fondamentale lavorare con gli attori, di una bravura incredibile, che interpretano membri della mafia serba e mi hanno molto aiutato insieme a un coach. All’inizio vedevo solo consonanti e zero vocali (ride, ndr). Ricordo la prima volta che ho fatto una scena e un attore mi ha risposto in serbo. Mi sono emozionata e ho detto: “Ma allora tu capisci quello che ho detto!” (ride, ndr). Mi sembrava incredibile perché non è solo ripetere qualcosa, devi dare anche un senso alle parole che dici. Mi era capitato di parlare russo in Dieci Inverni. Ogni lingua si porta dietro anche dei pesi molto diversi. Cambi attitudine. È un po’ come quando ti chiedono i dialetti. Si possono imitate, però è chiaro che un siciliano dentro ha un modo di pensare la vita rispetto a un piemontese o un toscano. La lingua è qualcosa che si porta dentro tutto: un corpo, un’anima, una visione del mondo.

Isabella Ragonese

Isabella Ragonese. Courtesy of Dirk Vogel

Ha debuttato alla regia con un omaggio a Rosa Balistreri. Nel documentario cita una sua frase detta ai suoi cari prima di morire: “Fai che io non muoia”.

Ogni volta che rivedo il film, quando lo proiettano e io magari arrivo alla conclusione per il dibattito e vedo quella scena, come una scema mi commuovo. Perché dentro c’è una cosa così umana. Forse per gli artisti è ancora più evidente. Pensi che le cose che hai fatto ti sopravvivano, che tra mille anni qualcuno troverà un piccolo supporto in cui c’è un tuo film dentro. E questo per la musica è ancora più forte. Ha la possibilità di passare di bocca in bocca, di essere cantata all’infinito e quindi rivisitata da chiunque la intona. Questa frase di Rosa è stata il motore per fare tutto questo. Non lo definirei neanche documentario, ma un omaggio. Come a dirle: “Se ti può consolare, ovunque tu sia: no, non ti abbiamo dimenticato. Anzi, sei presente”. Soprattutto volevo toglierla dal museo etnografico, dal folklore e raccontare che in realtà per me è stata una fonte di ispirazione anche non facendo la cantante. Un artista quando è grande influenza tutti, diventa seminale. Ha la capacità di toccare e di risuonare nei corpi delle persone al di là del mestiere che fanno.

Rispetto a questo, crede che in qualche modo l’attore sia immortale grazie al suo lavoro?

Non lo so. Forse è un’illusione. Penso che un po’ ci sia un’ambizione. Per me più che altro è quella di non lavorare sulla quantità di persone che ti vede. Mi è capitato di ritrovarmi “dall’altra parte” e ci sono persone che non ho mai conosciuto ma a cui devo qualcosa perché magari mi hanno salvato. Ho un ricordo vivido di alcuni spettacoli dove magari eravamo in cinque ma quel momento è diventato parte della mia vita. Quello stupore della mia memoria. Quindi se questo significa immortale, allora sì. Mi piacerebbe che anche solo un momento rimanga, ma non perché si ricordino il mio nome. Non penso che lo fai solo per te questo mestiere. Ha anche un valore nella società sia da quando è iniziata l’idea di polis, dello stare insieme. Ha qualcosa anche di magico per me, come risuscitare i morti. Perché alla fine noi attori risuscitiamo fantasmi. E quando raramente capitano quei momenti in cui ti dimentichi di te, sei lì e non sai neanche cosa stai facendo, c’è qualcosa di mistico. Sono molto terrena e concreta, ma in questa cosa ci credo. Ci sono degli attimi in cui non sai neanche chi sta parlando per te. Le persone ne possono rievocare un’altra in un momento della loro vita. Non posso non credere a un collegamento tra gli esseri umani. Altrimenti non potrei fare questo mestiere.

Ha interpretato Letizia Battaglia, che a 40 anni scatta la sua prima foto e rivoluziona completamente la sua vita. Che effetto le fa dare voce e corpo a una figura del genere in un Paese dove le donne quando provano a cambiare la propria vita spesso vengono uccise?

Io sono una goccia nel mare. Credo però che tutti noi nel nostro piccolo dobbiamo impegnarci a raccontare qualcosa. Letizia è un unicum. Un personaggio che neanche un grandissimo sceneggiatore poteva inventare. La sua è una storia incredibile. Però mi è capitato di dare voce anche ad altre donne che non hanno un nome. Credo che questo sia il mio impegno. Di rappresentare anche delle donne molto diverse fra loro. Interpretare Letizia per me ha significato ricordare quanto è stato difficile quello che abbiamo conquistato oggi. Siamo figli e nipoti di donne pioniere. Erano sole, erano le prime che provavano a esercitare la libertà. È sempre importante ricordarlo perché è qualcosa che non si può perdere. Ricordare la fatica che è stata fatta per cui oggi noi possiamo avere le nostre libertà. Anche se il percorso non è per niente finito.

Letizia Battaglia è un simbolo di un riscatto?

Letizia, a suo modo, nonostante un carattere così volitivo e forte, ha subito la stessa violenza psicologica di molte altre donne. La cosa cui tengo nella diversità della rappresentazione è sperare in un mondo in cui, anche se non hai il carattere di Letizia, ci sia per tutte la stessa possibilità. Se una resta indietro non è che uno può dirsi soddisfatto perché invece ce l’ha fatta. Quest’idea di comunità la sento molto forte. È un po’ come quando spesso si parla di molestie.

Cioè?

Ho avuto un percorso molto diverso perché sono entrata subito dalla porta principale. Non sono arrivata a Roma giovanissima, sola. Dire che a me non è capitato è come sottintendere che è perché sono più furba o forte. Non mi va di porre la mia esperienza come esempio perché vorrebbe dire mortificare o comunque svalutare le persone a cui è capitato. Perché non deve capitare al di là del carattere che hai, se hai la prontezza o se ci pensi dopo due o quarant’anni dopo a denunciare.

Isabella Ragonese e Letizia Battaglia sul set di Solo per passione - Letizia Battaglia di Roberto Andò. Foto di Lia Pasqualino.

Isabella Ragonese e Letizia Battaglia sul set di Solo per passione – Letizia Battaglia di Roberto Andò. Foto di Lia Pasqualino.

È un problema sociale secondo lei?

In Italia abbiamo un’emergenza. Non esagero dicendo che ogni volta che apro il giornale leggo di un femminicidio. Nel nostro Paese si parla sempre di emergenza per qualsiasi cosa. Questo non mi sembra sia visto come tale. Rimane sempre un caso isolato, raccontato, anche con morbosità, con l’annientamento della vittima come un numero. “L’ennesimo femminicidio”.

Come crede si possa modificare questa narrazione?

Deve essere fatto un lavoro. Stiamo tornando indietro in tante cose. Purtroppo non è che se hai conquistato la vetta rimani là. È un attimo perderla. Ed è un lavoro che secondo me deve essere fatto con gli uomini. Che raccontino cosa scatta nella loro testa, che tipo di educazione, segnali e formazione hanno avuto. Quando ho fatto il documentario su Rosa molte mi dicevano che ho raccontato le donne non come vittime, ma capaci di reagire. È come se tutti mettessero bocca su come una donna si deve comportare. È come se il corpo delle donne e le loro scelte fossero una cosa pubblica. Rappresentare tante donne per me, completamente diverse, è importantissimo.

Crede che in un certo senso le sue scelte professionali siano anche delle scelte politiche, date dal tipo di donne che decide di portare in scena?

Assolutamente. Ma, forse perché vengo da Palermo. Sono cresciuta con due frasi che si ripetevano sempre, “il cinema è in crisi” e “la politica fa schifo”. Vengo da un posto dove non ti puoi permettere di dire questa cosa. Quando vedi certe situazioni fin da piccola, devi prendere una posizione politica. Per me significa non voltarsi dall’altra parte. La politica è mettersi insieme. Perché magari una persona da sola è più soggetta a essere giudicata, ma se dietro hai una comunità che ti sostiene puoi farcela. Non voglio combattere solo per le cose che mi riguardano personalmente. Non ci sto al giochino che devo tirare fuori il mio dramma personale per avere la patente per parlare di certe cose. Le posso sentire anche se non le ho vissute in prima persona. Le posso immaginare, probabilmente anche grazie al mio lavoro.

È qualcosa che deve diventare anche gesto concreto?

Penso che in Sicilia fin da piccolo vedi delle connessioni tra un certo tipo di politica e la mafia e non puoi fare finta di niente. Io me lo giustifico così questo mio pensare che tutto quello che fai è politico. In questo Letizia era straordinaria, perché era pensiero e azione. Non era un’intellettuale da salotto che dice delle cose e poi ne fa altre. Più che dirle lei le esercitava. Non rimanevano discorsi astratti, rimaneva l’esempio nella tua vita. Che non è per forza fare cose incredibili, ma sta nella coerenza di certe azioni. Io per esempio volevo dimostrarmi che ce l’avrei fatta. Un po’ sono contenta che quel poco che sono riuscita a fare, l’ho fatto da sola. Nonostante degli incontri bellissimi nel mio percorso. Perché penso che così almeno si crei un precedente.

Un'immagine di Rosa - Il Canto Delle Sirene

Un’immagine di Rosa – Il Canto Delle Sirene

Se non avesse fatto l’attrice immagina cosa avrebbe potuto fare?

No. Fin da piccola, lo sapevo già. Magari non sapevo cos’era – un lavoro – ma lo sapevo. Avevo una quantità di piani B tali che poi alla fine è stato meglio fare l’attrice, perché ti permette di fare tutte queste cose.

A prescindere dalla sua carriera e dai suoi ruoli, lei emana un’attitudine rock…

Mi ricordo che quando stavo giù a Palermo, da ventenne, facevo dei laboratori teatrali nel terzo settore con persone magari sotto metadone. E io ero esattamente l’opposto: quella fisicamente delicata, un po’ bambolina, con i riccioletti. E quel mio aspetto così dolce lo vivevo come qualcosa che mi minimizzava. Tantissime persone mi dicono che ho un viso molto delicato, senza spigoli. Ma io, in realtà, di mio sono molto più rock di come appaio. Sono una grande appassionata di cinema e di teatro, ma forse la mia prima passione è proprio la musica. E devo dire che proprio la musica mi ha salvato nel periodo adolescenziale. Ero chiusissima. Un po’ anche questo lavoro mi ha salvato, mi ha migliorato, anche obbligandomi alla socialità.

Che musica ascoltava?

Ho un fratello maggiore che aveva dei vinili che non dovevano essere toccati, ovviamente (ride, ndr). Quindi quando lui usciva dovevo ricordarmi di rimetterli esattamente come li avevo trovati. Li ascoltavo sempre con l’ansia di fare attenzione che non rientrasse in quel momento. Il primo disco è stato The Velvet Underground & Nico. Ho avuto un’illuminazione. Ero una malata di Lou Reed e lo sono tutt’ora.

A teatro è Clitennestra. È arrivato il momento di rivalutarla?

Lo spettacolo viene da un romanzo, La casa dei nomi, di Colm Tóibín che ha fatto una cosa molto interessante. Sposta l’inquadratura, proprio come con una macchina da presa. La storia viene raccontata dal punto di vista di Clitennestra. Parla di una donna che si trova a dire: “Non voglio seguire le leggi pensate dagli uomini”. In più è un personaggio modernissimo perché è la prima atea che non crede che il vento degli dèi possa cambiare con un sacrificio. Lo vede come una superstizione. È una donna di potere, con un desiderio sessuale. Ed è questo forse che dà molto fastidio. In più è stata una regina. Ma, a differenza di Agamennone, non ha un esercito. Non avendo i mezzi di un uomo trama perché utilizza l’unico esercito che: la sua intelligenza.

Cosa prova nell’attimo prima di entrare in scena?

Non mi scorderò mai quando da ragazza andavo da sola, spesso in Emilia Romagna, a fare i miei spettacoli e quando arrivavo, il tecnico luci mi diceva: “Dove sono gli altri?”. Se ripenso ai miei esordi mi dico che se ho fatto quello, posso fare tutto. Anche se, prima di entrare in scena, penso “ma chi me l’ha fatto fare?”. Poi una volta messo piede sul palco, mi dimentico tutto. C’è solo gioia. In questo i musicisti sono più liberi. E allora penso di vivere quel momento da rocker. La gente ha pagato il biglietto per vedere te. E allora facciamoli divertire.

Sta pensando a una nuova regia?

Ho sempre pensato che l’attore non può essere un interprete e basta. È anche un autore. Il mio lavoro di attore colma anche il bisogno creativo che c’è in me. Anche perché ho iniziato così, pensando di fare questo. Però non lo escludo. Non so dire se sarà un film oppure se scriverò qualcosa. Ascolto i segnali. In fondo l’omaggio a Rosa Balistreri è nato così.

L’inattività lavorativa la spaventa?

Direi di no. Anche il periodo della quarantena, tralasciandone la drammaticità, è stato un momento molto creativo. Ho letto moltissimo, visto film, ricominciato a suonare il violoncello. Essendo una persona piena di interessi è difficile che io mi annoi da sola. Amici e parenti mi dicono che non sono stata mai ferma, però io vivo nel sogno dell’ozio. Adesso viaggerò molto per presentare l’omaggio a Rosa, andrò in città meravigliose. È un modo molto fortunato di vivere il proprio lavoro.

Art Director: Piepaolo Pitacco
Foto: Dirk Vogel
Mua Make Up: Chiara Corsaletti
Hair: Chiara Corsaletti

Isabella Ragonese protagonista della digital cover di THR Roma

Isabella Ragonese protagonista della digital cover di THR Roma