Marta Gastini “Vorrei un film con Paola Cortellesi e un mondo che sappia davvero parlare delle donne”

Sarà a teatro dal 12 gennaio 2024 con Il figlio di Florian Zeller. A marzo arriverà Zamora di Neri Marcoré dove interpreta una donna affascinante ed emancipata. Con The Hollywood Reporter Roma fa un bilancio professionale e non, parla di come sia importante prendersi cura tanto della mente quanto del corpo, di femminicidio e di come potremmo e dovremmo cominciare a raccontare in maniera diversa i personaggi femminili e le loro storie

Marta Gastini è una classe 1989. Giovanissima, eppure sono 15 anni che la vediamo al cinema. Una di quelle interpreti camaleontiche, capace di percorrere tanto cinema diverso, di superare i confini di nazioni e generi, di saper stupire e disorientare chi la guarda e chi la dirige.

Ha una sua bellezza che è come il suo talento, non facilmente etichettabile, mutevole, ha recitato, quasi da esordiente, con Anthony Hopkins, ne Il rito, senza sfigurare (anzi), per poi affrontare mille avventure diverse.

In fondo per capirne la capacità di andare incontro al suo lavoro senza rete basta vedere i suoi ultimi lavori. Protagonista per Beniamino Catena nel bel Io sono Vera, passato al Torino Film Festival nel 2020, un’opera fantarealista particolarissima, così come per Alessio Maria Federici in Quattro metà, commedia romantica che riscrive gli stilemi e le regole del genere, per arrivare a Il figlio, a teatro dal 12 gennaio 2024 fino a primavera inoltrata e Zamora che a marzo la vedrà nel cast dell’esordio sul grande schermo di Neri Marcoré.

Un’attrice profondamente europea e internazionale ma capace improvvisamente di scendere in narrazioni locali, una donna che non ha paura di dire la sua laddove molte colleghe si tengono a distanza di sicurezza.

Da Anthony Hopkins e il cinema internazionale a una piccola preziosa storia di provincia come Zamora. Un bel salto per lei?

Hai ragione, è così. Ma non solo per quello che dici tu, perché ovviamente sono due dimensioni produttive e narrative diverse, ma anche perché il film di Neri Marcorè insiste su un genere che ho frequentato molto meno, quello della commedia. Sì, è vero, c’è stata in precedenza la serie di Tutta colpa di Freud, per poi passare a Moglie e Marito, però mi sento ancora un’esordiente in questo campo. E dire che il mio esordio al cinema fu con Leonardo Pieraccioni!

Ma il punto è che ha così tanti toni e colori, la commedia, che sento ancora che mi sto sperimentando come attrice in questo linguaggio cinematografico. Poi Zamora per me è speciale, perché sono di Torino e quindi l’ho girata un po’ a casa mia e allo stesso tempo il film era però ambientato in Lombardia, nella provincia, e poi a Milano e quindi mi sono dovuta anche cimentare con l’accento meneghino ed è stato molto divertente vivere questo straniamento.

In più c’era da restituire gli anni ’60 attraverso una donna che nel corso della storia si dimostra emancipata, moderna e consapevole, profondamente rispettosa di sé e della sua femminilità. Una che dimostra di avere una bella forza.

Volendo fare una provocazione, non erano forse più coraggiose e ribelli le donne di quella generazione?

Sono convinta che sia così, la grande intuizione di Neri secondo me è proprio questa: fare un film d’epoca ma ambientato in un tempo molto moderno, in cui da Mary Quant a un femminismo nascente puoi incastrare una generazione di donne tra le più interessanti e raccontarle in molte sfaccettature, rispetto a tante facili generalizzazioni che ti offrono altri decenni.

Di sicuro è stata una delle cose che mi ha subito convinto ad accettare il ruolo, poi ho potuto apprezzare che persona e regista accogliente, brillante, intelligente e divertente lui sia. Mi ha sorpreso, perché è stato un esordiente con una padronanza di mezzi e set straordinaria, con idee chiarissime e la capacità di essere per tutti noi una guida esemplare. Qualcosa che non è facile trovare, ti assicuro.

Ci ha regalato una serenità quotidiana davvero speciale, non l’ho mai visto perdere le staffe neanche nei momenti più difficili e durante le settimane in cui si gira ce ne sono sempre.

E poi lasciamelo dire, dentro Zamora c’è proprio lui, le sue competenze e i suoi talenti, persino la sua passione per la musica che ha regalato intuizioni e un ritmo tutto suo alla storia.

Confesso una cosa, ed è un complimento. Trovo il suo lavoro di alto livello perché come succede a pochi suoi colleghi – uno di questi è sicuramente Elio Germano – Marta Gastini non sovrasta mai il personaggio. Tanto che a volte non la riconosci.
F
a parte del suo metodo di lavoro? E questa abnegazione ai ruoli che interpreta le è costato qualcosa in termini di carriera?

Non so dirti se sia un metodo, sono sincera, non è qualcosa di completamente consapevole, anche se desidero, voglio sempre fondermi al personaggio, questo è indubbio. Infatti continuo a sentirlo ben oltre il set, tornare a una vita normale non è facilissimo per me, soprattutto nel periodo immediatamente successivo alla lavorazione di un film. So che amo così tanto questo lavoro da rifiutare l’idea che il mio io possa invadere il personaggio e la storia e sì, so che mi sarà costato di sicuro in termini di carriera.

Credo però che ci siano due tipi di attrici e attori, chi guarda alla bellezza di ciò che fa e la mette davanti a tutti e chi sa avere una visione strategica di sé, e lo vive con profonda professionalità nel fare le scelte più convenienti per il proprio percorso. Non è un giudizio di merito o morale, credo siano due modi di vivere questa professione altrettanto giusti, però io se ricordi e apprezzi la donna che racconto più di me, se ti ricordi lei e non il mio nome, sono felice.

Proprio ieri vedevo un grande attore a cui la propria convenienza interessa poco e nulla. E lo stavo guardando su Tik Tok! Lo sa di chi parlo, vero?

Anthony, Anthony Hopkins, che uomo magnifico. E che privilegio lavorarci, ne Il rito, a volte ancora fatico a crederci. Non si è mai preso troppo sul serio, mi ha insegnato a fare una cosa che faccio fatica a concedermi, divertirmi lavorando. Quella fu un’esperienza difficile, ero giovanissima alle prese con un mito assoluto e un tema controverso e complicato, ma mi ha formato come nessun altra.

Non credo avrei potuto avere una palestra migliore e lui è stato un allenatore incredibile. Il tutto l’ho vissuto da giovanissima.

Lei ha iniziato prestissimo, a neanche 18 anni. Ha passato quasi lo stesso tempo sul set di quanto ne abbia passato senza. Non deve essere stato facile. Le viene da fare, ora, un bilancio sia esistenziale che professionale di quest’esperienza?

C’è chi alla sua età esordisce.

Mi viene in mente un parallelo con lo sport agonistico, la mia parabola assomiglia un po’ a quei campioni in erba che rinunciano a tutto, o comunque a un’adolescenza e una giovinezza “normali” – che poi non lo sono mai -, per inseguire un sogno. In fondo è qualcosa che fa parte di me, vengo dalla danza, qualcosa che ti spinge oltre i tuoi limiti costantemente, una passione per il palcoscenico l’ho avuta fin da bambina.

Non sapevo, in realtà, che avrei avuto una carriera artistica finché non sono incappata in un corso di recitazione per il cinema e in qualche modo mi ha folgorato e la determinazione che ho sempre avuto si è convogliata in quella direzione.

Ecco, se devo fare un bilancio, devo partire da quella determinazione, che sa essere un motore meraviglioso ma anche un po’ un veleno.

In che senso?

Che ho iniziato a lavorare da subito e il gioco si è trasformato subito in qualcos’altro. Tutti i primi anni si sono rivolti a fare meglio, a identificare me stessa con il lavoro. A un certo punto questo è stato troppo e infatti ho dovuto dare un piccolo stop a questa corsa forsennata e tenace, perché semplicemente dovevo prima scoprire chi fosse Marta.

Ho rallentato per ritrovare me stessa, a partire dalle amicizie per arrivare ai miei sentimenti e desideri più profondi, per ritrovarmi all’interno di una famiglia e porre un confine tra me e l’attrice, tra Marta e il lavoro. Volevo poter riaffrontare il tutto con più gioia, passione, consapevolezza, con una struttura diversa e più forte e, come mi ha insegnato Hopkins, divertendomi di più.

Per carità, il mio carattere è sempre quello, rimango determinata, serissima quando prendo un impegno, e considero il mio un lavoro da onorare con il massimo dell’abnegazione, ma cerco di essere meno seriosa. Ecco, per farti un paragone, ora mi rivedo tanto in Sinner. In come prende le cose, intendiamoci, non penso di essere alla sua altezza, lui è tra i migliori del mondo!

Jannik che si è definitivamente consacrato come un campionissimo proprio nella sua Torino. Però sono curioso di questo parallelo, cosa intende?

Lui dice sempre che la pressione che viviamo noi sportivi – o intrattenitori o artisti, come nel mio caso – è nulla rispetto a quella che c’è in altre professioni. I medici hanno la responsabilità di centinaia di vite dei loro pazienti, altri proteggono la nostra serenità di cittadini, altri ancora hanno in mano il destino di popoli interi, devono davvero sopportare un peso enorme.

E quindi, pensando a questo, devi comprendere il grande privilegio che hai e a questo punto della mia vita e carriera posso dire che sì, l’ho capito, e lo vivo anche con la dovuta leggerezza, come un gioco molto serio, ma che tale è.

Ho un’immagine in mente, ora, di Jannik Sinner alle ATP Finals. Gioco decisivo contro Djokovic, il momento più importante della sua carriera. Sta sotto. Match point contro. E lui ride, mentre l’altro protesta contro il pubblico, lo provoca. Lui, ride. Sta facendo quello che gli piace, è felice. E questo non gli impedisce di dare il massimo anche nel momento più difficile. Anzi.

Non le chiedo che cosa ha capito in quel momento di pausa, però che cosa ha fatto per capirlo sì.

Mi sono dedicata a una ricerca interiore approfondita, mi sono rivolta a una terapeuta ed ho scoperto che è uno dei regali più grandi che le persone possono farsi nella vita, perché abbiamo tutti un vissuto e qualcosa che va snocciolato, analizzato, metabolizzato.

Bisogna superare l’idea che fare un percorso di quel tipo abbia a che fare con lo stigma della malattia mentale, che peraltro non deve esistere, e parlarne serenamente secondo me serve a tutti noi per avere un rapporto sano con quest’eventualità, perché venga considerato normale rivolgersi a qualcuno per curare la tua mente esattamente come altri medici fanno con il tuo corpo.

Così mi sono riscoperta come un’amica presente, non quella lontana e sempre impegnata, mi sono sposata e sono diventata madre, ho costruito e in alcuni casi ricostruito un universo affettivo e la mia vita fuori dal lavoro.

E poi sai cosa ti dico? Che è ancora più necessario per chi fa l’attrice, se non sai mettere orfdine nel tuo caos come fai a capire e interiorizzare un personaggio altro da te?

Beh, se quando rallenta sul lavoro si sposa e fa un figlio, non oso pensare quando è a pieno regime cosa può fare. Scherzi a parte, è tornata poi sul set e sul palco con uno sguardo diverso?

Certo, come ho detto ho affrontato la la recitazione con quello spirito un po’ più leggero che descrivevo prima e ho iniziato anche a pensare di voler raccontare delle storie in prima persona e prima o poi so che accadrà.

Magari partendo dal trasformare, adattare quelle di mia mamma, una scrittrice che ha fatto bei libri che potrebbero avere ottime trasposizioni cinematografiche o televisive (Rossana Balduzzi Gastini, che esordì con il thriller psicologico Life on loan e la cui “prima” trilogia fu opzionata da una casa di produzione statunitense, in passato – ndr), per poi arrivare a qualcosa di ancora più personale.

A proposito di storie particolari e difficili, Il figlio che porta a teatro dal 12 gennaio 2024 a Casalgrande (Reggio Emilia), con cui girerà il Nord Italia e sconfinerà a Locarno, in Svizzera, fino alle 5 repliche in aprile a Roma al Parioli, sembra davvero una prova complessa e difficile. Soprattutto come primo passo in questo mondo.

Posso dire che è la mia prima esperienza teatrale vera ed è stata, è bella tosta.

Il testo è di Zeller ed è parte di una trilogia – Il padre, La madre e, appunto, Il figlio – il cui primo capitolo, guarda il destino, è stato adattato per il cinema con la grande e celebrata performance proprio di Anthony Hopkins, che a lui è valso l’Oscar per la migliore interpretazione maschile (che non è andato a ritirare e che ha scoperto di aver vinto dopo una serena dormita nella sua Scozia, alla fine della quale ha registrato un video di ringraziamento ironico e giocoso per i social – ndr) e a Florian Zeller, che ne era anche il regista, quello per la miglior sceneggiatura non originale.

Parla di un adolescente, della difficoltà dell’incomunicabilità di un dolore profondo che i suoi genitori non riescono a capire, la storia è una lente d’ingrandimento su un certo tipo di famiglia borghese (formata da lei con Cesare Bocci, Galatea Ranzi e Giulio Pranno) che fa di tutto per stare accanto al ragazzo, senza riuscirci perché irrimediabilmente superficiale nell’ascolto.

In più è un nucleo famigliare allargato, i genitori sono separati e io interpreto proprio la nuova moglie del padre, madre del suo piccolo fratellastro.

La sfida è doppia: da una parte affrontare l’impresa di andare davanti a un pubblico ogni sera, di sfidarlo laddove nel cinema sei protetto dalla possibilità di ripetere un ciak, dal montaggio; dall’altra un testo così potente non può non interrogarti personalmente come figlia, come donna, come madre e ripetere quest’introspezione per settimane, mesi è difficile.

Ha paura dell’impegno fisico e mentale che comporta una tournée dal vivo?

Quaranta date insieme a Zeller, alla sua capacità di scavarti dentro non saranno affatto facili! Ma questo, che mi fa paura, mi entusiasma allo stesso tempo, perché ogni giorno, ogni rappresentazione sarà diversa. Ed è qualcosa di magico, che mi regalerà sensazioni uniche.

E poi Zeller ha questo talento bellissimo e terribile di saper inserire in una piccola comunità il malessere di un singolo che va a scompigliare tutto, a eroderla dall’interno, per cui tutti vengono travolti da quel dolore fino a un epilogo che non puoi controllare.

E io mi trovo a essere un elemento esterno e al contempo fondante di questo nucleo, che deve aiutare il suo compagno ad affrontare quel dolore ma al contempo proteggere un figlio appena nato da questa valanga emotiva che sta arrivando su tutti loro.

Tutti abbiamo vissuto qualcosa di simile e come attrice mi sono attaccata a come mi parlava la pièce, senza proteggermi ma senza farmi travolgere. E credo succederà anche a chi verrà a teatro a vederci.

Zeller tutto è fuorché politicamente corretto. Che posizione ha verso questo fenomeno? Sembra che si sia passati da un racconto del femminile funzionale e stereotipato a un’ossessione, in alcuni generi e in alcune major, di forzare la presenza di eroine che alla fine lo sembrano altrettanto. Che responsabilità c’è, in questo, non solo di produttori, registi e sceneggiatori ma anche delle scelte degli interpreti che troppo spesso si rifugiano in ruoli “sicuri”?

Sono d’accordo con te che ci siano state entrambe queste parabole e che per un po’ abbiamo vissuto, e forse stiamo ancora vivendo, il problema inverso, un femminismo forzato nel raccontare certe figure femminili.

Non serve a nulla renderle, renderci invincibili, Paola Cortellesi ci ha mostrato come la vera emancipazione narrativa e interpretativa è dare a una donna protagonista di una storia la possibilità di essere fragile, complessa, reattiva come un qualsiasi personaggio maschile.

Ovvio che anche noi attori abbiamo le nostre responsabilità quando accettiamo certi ruoli rispetto ad altri. La verità è che la regola migliore è non cercare la comfort zone, non farsi sedurre dal numero di pose.

Io ho sempre preferito un piccolo ruolo che avesse un significato, una profondità, a una protagonista bidimensionale. Lo fai anche per interesse, perché se conosci il tuo talento sai anche cosa, chi, come può valorizzarlo al meglio.

Poi, come ti ho detto, io non ho mai ragionato strategiamente, ho cercato di lasciarmi molto guidare dall’istinto e quindi laddove sento che certi personaggi mi sono vicini e di poter essere determinante, li scelgo, indipendentemente dalla fama o dalla visibilità che possono darmi.

Marta Gastini

Marta Gastini

A proposito di figure femminili e di narrazione, ascoltavo recentemente il bellissimo podcast (e docuserie Sky) Dove nessuno guarda. Il caso Elisa Claps di Pablo Trincia. Lui ha avuto un’intuizione meravigliosa: dopo aver mostrato l’orrore di quel femminicidio, gli errori ignobili, i sospetti terribili sulle coperture politiche e religiose nel caso, ha voluto raccontare Elisa da viva. Non solo come una vittima.

Può essere questo il problema? Non riusciamo a raccontare le donne vittime di violenza se non come vittime e così le spersonalizziamo?

Credo sia un problema enorme, peraltro è come se tutti noi quasi rifiutassimo chi si ostina invece a togliere chi subisce quella violenza da quel luogo rassicurante che è la vittimizzazione. Restituire a queste donne la dignità della vita vuol dire riconoscere la banalità del male che è attorno a noi e questo penso faccia molta paura.

Non ricordo film che raccontino questo, che ci portino nel mondo di queste donne, nel coraggio e nella bellezza che hanno dato da vive, perché forse renderebbe davvero insopportabile la loro uccisione. Siamo arrivati a un punto in cui la morte traumantica continuamente ripercorsa nell’immaginario collettivo sia diventata una sorta di difesa della società di fronte alla frattura che ha in sé.

Il papà di Giulia Cecchettin lo ha detto perfettamente, quando ha ammesso che certe storie quando le senti sembrano lontane, che non ti possono toccare, perché il mostro è sempre qualcosa di altro e di lontano e quegli orrori non esistono nel mondo reale.

Ed è il motivo per cui lui sta invertendo quella narrazione, parla e cerca di farlo ovunque e in ogni occasione, perché altri non facciano quello che lui definisce “il suo stesso errore”. Ma non è suo, è nostro. Non a caso questo suo tentativo è portato avanti con le enormi resistenze di uomini e donne che dovrebbero essergli solidali.

Sono convinta, però, che ora abbiamo la maturità per raccontare una storia del genere con il giusto sguardo, smettendo di renderla “eccezionale”. Anche perché altrimenti questo modo di narrare ci rende apatici di fronte al dramma, mentre abbiamo bisogno di avvicinarci a queste storie, sentirle nostre, così da difendere queste ragazze quando le (ri)conosciamo da vive.

Chiudiamo con una nota più leggera. Suona il telefono. Chi vorrebbe fosse? E che personaggio le farebbe piacere le proponesse?

Sarò banale, ma Paola Cortellesi, sono ancora troppo affascinata da quello che ha fatto e come. E dai personaggi femminili che ha dipinto. Per quanto riguarda il personaggio, lo lascerei scegliere a lei, sarei proprio felice di farmi sorprendere.

Io, di mio, vorrei interpretare una poliziotta, sono una patita di thriller, un personaggio alla Matthew McConaughey in True Detective mi farebbe impazzire, sono rapita da quegli uomini e quelle donne che hanno dentro una sofferenza profonda.

Però anche un film d’azione, non sarebbe male!