Gino ed Elena Cecchettin (per non parlare della nonna): il lutto contestato per Giulia è il pretesto per ucciderla di nuovo

Un editoriale attacca frontalmente il padre di una vittima di femminicidio. Ma è solo la punta dell'iceberg di uno tsunami che sta montando sui social, di uno sguardo moralistico su come starebbe vivendo il dolore la famiglia di Giulia Cecchettin, tra teorie complottiste e dita puntate su un eccessivo presenzialismo. Perché chi ci mette di fronte alle nostre responsabilità, da Ilaria Cucchi alla famiglia Giuliani, merita sempre strali da chi sa dare solo il cattivo esempio

Gino Cecchettin da Fabio Fazio. Apriti cielo. Vergogna. In un paese che non si indigna mai e quando lo fa, lo fa per opportunismo, un padre che con dignità e delicatezza ci offre il suo dolore perché sua figlia possa davvero essere l’ultima, ed è in quella trasmissione perché sa che non sarà così (anzi, già non è così) è una forma di cittadinanza talmente nobile che non possiamo né vogliamo sopportarlo. Semplicemente, non ne siamo capaci.

Noi lo vogliamo vedere piegato su se stesso, che piange. Vogliamo che la nonna non presenti il suo libro, che la figlia Elena – che tra le righe ci dice che sì lei aveva capito tutto ma probabilmente per le sue felpe definite “sataniche” e per i suoi piercing dalla società borghese è stata una Cassandra sottovalutata – non si erga con coraggio a riferimento di tante coetanee che corrono il rischio di essere violentate, uccise o anche “solo” umiliate. Lei, peraltro, è la strega da bruciare, lei che ha smosso le acque tirando fuori il convitato di pietra, la parola patriarcato.

Che piangiamo, contriti, di fronte alla poesia che chiede a una madre di non tarpare le ali alle altre donne di famiglia, perché una che ha provato a volare è stata abbattuta, ma che invece vogliamo proprio quello. Che un padre paghi con un dolore sordo e muto, che una sorella non si azzardi a dire la sua, che una nonna non presenti il frutto di anni di lavoro.

Noi non sopportiamo in alcun modo che invece di vivere il lutto con l’egocentrismo di ognuno di noi, privatamente, facendosi compatire, lo abbiano preso tra le mani e lo abbiano alzato perché tutti lo vedessimo, come Ilaria Cucchi fece con la foto del volto massacrato di Stefano, come la famiglia Giuliani fece con la vicenda di loro figlio Carlo a Genova 2001. Che abbiano deciso di far diventare i loro cari dei simboli, per salvare altri esseri umani.

Questi moralisti assomigliano tanto a quelli che massacravano decenni fa, mediaticamente e non, Franca Viola o Donatella Colasanti, quando non c’erano i social ma i bar, gli angoli delle strade, le parrucchiere, gli uffici della burocrazia e venivano tutti colonizzati dai pettegolezzi sussurrati, dalle battute meschine, dall’emarginazione gretta.

Alla lotta di Franca Viola dobbiamo la lunga strada verso il cambiamento di una legge ignobile che lavava via uno stupro con un matrimonio riparatore, a suo padre che la difese e fu insultato in ogni modo (come lei, come la memoria di Giulia, come Gino Cecchettin) per aver rifiutato insieme quel costume barbaro e aver denunciato i suoi sequestratori e violentatori.

Grazie a Donatella Colasanti, vittima del massacro del Circeo, un movimento femminista intero che ha saputo ridefinire i limiti di un consesso sociale incapace di capire fin dov’era arrivato, a lei che si è vista fino alla fine recapitare la colpa di aver creduto a tre ragazzi della cosiddetta Roma bene, a 17 anni.

C’è uno tsunami di letame che sta colpendo questa famiglia e che sta uccidendo di nuovo Giulia Cecchettin. Un esercito senza nome e con nickname e foto profilo grotteschi che sui social analizza frame, dichiarazioni, presenze mediatiche. È quell’Italia profonda, non certo nell’animo o nella mente, ma solo nel definire il buco retrogrado da cui proviene.

L’Italia a cui molti nostri quotidiani, molte nostre trasmissioni, per un punto di share in più, dà ascolto. E così ti ritrovi una collega, una di quelle illuminate e geniali passate alla storia nel commentare quanto fosse scortese e fannullone da parte dei giovani avere l’ardire di chiedere tempi, remunerazioni e diritti nei loro colloqui di lavoro, e che 6/7 euro l’ora erano sin troppi per loro (interessante poi, quando a dirlo è chi è sposata a un principe).

Questa donna, che da sempre surfa sui social e poi scrive editoriali ispirati ai suoi stessi status quando retweet e report gli suggeriscono un sicuro successo, ci ha regalato un j’accuse di quelli che farebbe voglia di restituire il tesserino per non condividerlo con lei.

Su Il Giornale, poi, ha pensato bene di estendere il pensiero qui sintetizzato sotto le 200 battute. Di toglierci il sospetto che fosse solo un pensiero mal posto o malinteso. Rendendolo più infame e peggiore. Ma non siamo qui per demonizzare una giornalista. Perché arriva buona ultima, dopo decine, forse centinaia di migliaia di leoni da tastiera (finalmente l’avvocato della famiglia Cecchettin, ieri, ha cominciato a denunciarli) che hanno accusato Gino, Elena, la nonna di satanismo, complicità, di freddezza emotiva, di reazioni sospette.

Ovvio, sono sospetti, quasi criminali i Cecchettin. In un paese, in un mondo drogato di individualismo, usano ogni pulpito per migliorarlo, per migliorarci. Lo fanno con la struggente capacità di raccontarsi, persino di colpevolizzarsi, perché un’infamia del genere ti lavora dentro, devasta, ti fa sospettare di essere mancato in qualcosa. E quei presunti errori chiedono a se stessi ma anche agli altri, alla collettività, di non farli più.

Perché loro, sì, hanno capito che Filippo Turetta non è un mostro (non a caso Borrelli insiste sul profilo psicotico dell’omicida per rassicurare i suoi lettori che no, non c’è una malattia sociale, virale ed endemica, terribilmente contagiosa, ma solo famiglie manchevoli che non sanno sorvegliare i loro giovani).

Lo ha capito Elena, che ci ha detto, scritto, impresso a fuoco che “nessun uomo è buono se non fa nulla per smantellare la società che li privilegia tanto”. Che è necessaria una “rivoluzione culturale”. Che quell’omicida, no, non era il giovane che tutte le mamme e i papà del suo paese sognavano come genero, per posizione sociale e garbo, ma un omicida, “un individuo che non è stato educato al consenso, al rispetto e alla libertà di scelta”.

La famiglia Cecchettin ha il torto di essere un nucleo di civiltà e onestà intellettuale, di altruismo sociale e forza d’animo. Di non essersi chiusa nel dolore, ma aperta al mondo, per tentare di far si che un giorno tutto questo loro dolore possa essere utile a noi. Noi per ringraziarli risp0ndiamo con tanto orrore e messaggi criminali da costringerli alla denuncia di massa.

Perché non c’è nulla e nessuno di peggio di chi ci dice chi siamo. Di chi ricorda a tutti che il cattivo della storia, Filippo, è l’effetto di una società predatoria e fallocentrica, che ci ha insegnato che l’uomo deve guadagnare di più (almeno il 27% in più a parità di mansioni e carica), che deve laurearsi prima (perché fosse mai che una donna sia migliore di me, che poi del rapporto con gli obiettivi delle ultime generazioni dovremmo parlare per parlare delle nostre responsabilità di genitori), che può, pure secondo la musica leggera italiana di ogni epoca, disporre del tempo, degli spazi, della vita delle donne come vogliono.

No, Turetta non è un mostro. È un modello aspirazionale che non ce l’ha fatta. E chi insulta i Cecchettin è complice suo e della mentalità di cui è figlio. Di chi dalle donne si aspetta la cura e non l’ambizione (e di conseguenza considera deboli padri che si fanno carico della prima e rinunciano alla seconda), di chi giudica bene un uomo perché fa i biscotti a una donna, di chi trova lo stalking una forma d’amore.

L’editoriale su Il Giornale, che ha fatto indignare tutti, è solo un megafono. Vergognoso, ma capitalizza solo il pensiero debole di un mondo che per dirla alla Gaber, è ormai rattrappito e piegato sui suoi pregiudizi e piccolezze.

Dovremmo smettere di “uccidere i morti” come ha sottolineato l’avvocato della famiglia, Nicodemo Gentile. Di prolungarne l’agonia, che nella realtà è stata di 22 minuti. Dovremmo invece ringraziare Gino, Elena, tutti loro. Con le parole di Rudyard Kipling, che iniziava la sua Se così.

“Se riuscirai a mantenere la calma quando tutti intorno a te la perdono, e te ne fanno una colpa / Se riuscirai a avere fiducia in te quando tutti ne dubitano, ma anche a tener conto del dubbio / Se riuscirai ad aspettare senza stancarti di aspettare, O essendo calunniato, non rispondere con la calunnia / O essendo odiato a non lasciarti prendere dall’odio / Senza tuttavia sembrare troppo buono, né parlare troppo da saggio” per poi finire con un eloquente “allora sarai un Uomo, figlio mio!”.

Con la U e non con la M maiuscola.