Tra le stelle con Giulio Base: “Io, le nove vite di Margherita Hack e la passione (popolare) di mio padre per i film”

Il papà venditore di noccioline in una sala cinematografica di Napoli che gli ha trasmesso l'amore per il cinema, la direzione del Torino Film Festival e l'ossessione per Marlon Brando e il tifo per Matteo Garrone. Il regista racconta Margherita delle stelle, pellicola dedicata alla vita dell'astrofisica con il volto di Cristiana Capotondi in onda il 5 marzo su Rai Uno. E sulle polemiche dice: "Sono un partigiano della riconciliazione". L'intervista di THR Roma

“Sono a Berlino e finora ho visto tanti film buoni. Anche gli italiani, Gloria! e Another End, mi sono piaciuti. Il secondo film di Mati Diop è un piccolo capolavoro”. Ci aveva visto lungo Giulio Base quando THR Roma lo aveva contattato a qualche giorno dalla fine della Berlinale – che ha conferito l’Orso d’oro proprio a Dahomey della regista franco-senegalese – per parlare di Margherita delle stelle. Il film dedicato alla vita dell’astrofisica con il volto di Cristina Capotondi in onda su Rai Uno il 5 marzo. Un coproduzione Rai Fiction – Minerva Pictures firmata da Monica Zapelli liberamente ispirata al libro Nove vite come i gatti di Margherita Hack e Federico Taddia che racconta gli anni meno noti della scienziata, partendo dalla sua infanzia e adolescenza.

Ma il film non è l’unico impegno recente di Base. Il regista e attore ha ufficialmente assunto la direzione artistica della 42ª edizione del Torino Film Festival che si terrà dal 22 al 30 novembre 2024 e di cui ha già svelato l’immagine ufficiale dedicata a Marlon Brando. “Ho una passione, forse un’ossessione per lui da sempre. Lo prendo come un enorme regalo della vita poter essere io a proporre una retrospettiva su Brando nell’anno del suo centenario”.

Cristina Capotondi sul set di Margherita delle stelle di Giulio Base

Cristina Capotondi sul set di Margherita delle stelle di Giulio Base

Guardando il film non si può che rimanere colpiti dalla modernità dei genitori di Margherita Hack. Conosceva la loto storia?

L’ho scoperta anch’io studiando. Come molti conoscevo l’astrofisica, la scienziata, la donna impegnata civilmente e professionalmente. Però quando ho letto la bellissima sceneggiatura di Monica Zapelli, ero sorpreso. Non dubitavo del fatto che si fosse documentata. Ma quando ho avuto l’incarico, come faccio sempre da secchione, ho letto tutto lo scibile sia scritto da lei sia da altri su di lei. Queste due figure sono magiche, genitori che tutti dovrebbero avere. Badano soltanto alla sua indipendenza, libertà e riuscita, rivalutando una parola che io adoro e che ho cercato anch’io di trasmettere ai miei figli, la maieutica, cioè di portarti a ragionare e non decidere per te.

Margherita delle stelle segna il suo ritorno sul piccolo schermo.

Credo fossero quindici anni che non facevo un film per la televisione. Ho avuto la fortuna di riprendermi un bel percorso con il cinema che avevo iniziato già negli anni Novanta e che, invece nei primi Duemila, era diventato sostanzialmente un continuo di cose – anche enormi – per la televisione con numeri pazzeschi. In questo caso a convincermi è stato proprio il progetto. Adoravo talmente tanto la sua personalità, libertà, indipendenza femminile.

Una cosa che mi è stata sempre a cuore, sia per quello che ho vissuto io nella mia famiglia sia per quello che vivo anche oggi, è il mio rapporto con una donna altrettanto forte e indipendente in cui ci si rispetta e si lavora con armonia. Insomma c’era una serie di cose che mi colpivano. Dopodiché ho letto la sceneggiatura di Monica e ho visto che davvero meritava un ritorno. Non penso che la gente lo aspetti (ride, ndr), ma nella mia carriera invece è significativo. Sono contento di tornare con un progetto così alto.

Che tipo di lavoro ha fatto con Cristina Capotondi?

Adesso lo so che sembra l’intervista di quella da cariare i denti, però non posso che dire la verità. E l’unica cosa che posso dire è che per me è stata una scoperta eccezionale. Una donna precisa, puntuale, lavoratrice, dedita a quello che fa, senza problematiche. E già prima di ritrovarci sul set avevamo capito che c’era una sintonia. La prima cosa che le ho detto è stata: “Mi raccomando Cristina, bisogna lavorare sul toscano”. Anche le persone che non conoscono Margherita Hack sanno che era una toscanaccia. Dal giorno dopo si è messa a lavorare con un dialog coach e mi pare che il risultato sia eccellente per una non toscana.

Cristina Capotondi, Sandra Ceccarelli, Cesare Bocci e Flavio Parenti

Cristina Capotondi, Sandra Ceccarelli, Cesare Bocci e Flavio Parenti in Una scena del film di Giulio Base

E il lavoro sul corpo?

Cristiana è quasi una Venere botticelliana come immagine, invece Hack veniva dallo sport, non badava troppo all’etichetta. Cristiana ha proprio un atteggiamento fisico diverso nel film, cammina e si muove in un altro modo. Sul set sembravamo le stelle gemelle di Auriga di cui parla il film. Non c’era mai una volta in cui non eravamo d’accordo su una scelta, un ciak, un’inquadratura. C’è stata una grandissima sintonia, per me è l’attrice ideale. Farei altri mille film con lei o con un’attrice come lei, è davvero un’ottima compagna di lavoro.

Nel film è presente del materiale d’archivio, compreso quello dedicato alla liberazione. Com’è stato ritrovarsi davanti a quelle immagini?

Mettere le mani negli archivi e quindi tuffarsi nel nostro passato e nella nostra storia è sempre emozionante. Stavolta il lavoro di comparazione è stato ancora più emozionante. Il racconto di una formazione, di una bimba libera grazie a due genitori indipendenti, che cresce con questo suo bel carattere volitivo, forte e coraggioso. Perché ci voleva coraggio per far valere i propri diritti, di donna, di essere umano, di scienziata, con un’Italia che si stava completamente trasformando dal ventennio fascista al dopoguerra a quello che noi quasi non raccontiamo, il primo boom degli anni Sessanta. Ho correlato la storia personale alla grande storia di un popolo e di un paese. Spero che anche il grande pubblica accolga l’emozione che abbiamo vissuto.

In Margherita delle stelle viene detto che ci condiziona il mondo in cui veniamo fatti crescere. Lei come è stato cresciuto?

Non avevano l’altezza intellettuale del papà e della mamma di Margarita Hack. Però anche mio padre e mia mamma, persone semplici, emigrate dal sud, con la classica valigia di cartone, con la terza e quarta elementare, questo sentimento di libertà me l’hanno davvero passato e li ringrazierò per sempre. Da loro ho ereditato un certo spirito fantasioso, mettiamola così, che appartiene un po’ più al sud Italia. Però sono cresciuto a Torino, dove c’è un’etica del lavoro, una precisione, una determinazione sabauda. Credo di aver mischiato queste due cose. Faccio un lavoro artistico, ma il mio metodo è monacale. Non faccio altro: mi sveglio presto, lavoro tanto, lavoro sempre. E mi piace molto ciò che faccio. Però i miei genitori mi hanno completamente lasciato libero di fare tutto quello che volevo e la passione per il cinema me l’ha passata papà in maniera molto più prosaica che celebrale.

Cristina Capotondi sul set di Margherita delle stelle

Cristina Capotondi sul set di Margherita delle stelle di Giulio Base

In che modo?

Papà era il primo di cinque fratelli. Suo padre morì quando aveva nove anni e l’ultimo dei suoi fratelli uno. Nel primo dopoguerra è diventato il capofamiglia. Ha dovuto lasciare gli studi e si è messo a fare il venditore di noccioline e caramelle in un cinema di Napoli. E nei cinema al tempo c’erano 3/4 spettacoli al giorno con 3/4 film diversi. Lui in quei dieci o quindici anni, finché non è venuto a Torino, si è fatto una cultura cinematografica mostruosa, ampissima e profonda, però popolare. Nella vita ha fatto tutt’altro, ma quella passione l’ha mantenuta.

Una volta sulla Rai c’era solo il primo canale e il lunedì sera facevano un unico film. Quando si trattava del cinema americano degli anni Cinquanta o Sessanta sembrava veramente Vieri Razzini o Claudio G. Fava. Spiegava il film, sapeva tutto. E non credo di aver passato mai una settimana intera senza andare al cinema con lui, e quindi con la sua maniera, molto vera e verace, di chi vendeva noccioline al cinema. Mi ha passato una passione che poi fortunatamente è diventata la mia professione.

Margherita Hack si è ribellata contro le leggi razziali rischiando i suoi studi e il suo futuro. In un momento storico come quello che stiamo vivendo, dove se si parla si può incappare in censure – come accaduto nei giorni di Sanremo – crede che il suo film sia anche un racconto antifascista e che ci sia bisogno di prendere posizione senza aver paura delle conseguenze?

Sì, lo è perché lei lo è stata. Rispetto alle posizioni sono d’accordo, e bisognerebbe farlo. Il problema personale in questo momento è che davvero difficile prendere posizioni. Mi è difficilissimo. Pensiamo ad Israele. Che parola si può dire? Se non si è partigiani e quindi si è presa una strada – “Per me Israele sono i santi. Per me i palestinesi devono essere liberati” – è molto difficile esprimersi per un partigiano della riconciliazione, quale sono io, in cui è la mia vita, sia privata, ma anche nel modo in cui racconto il cinema, è tutto un cercare di abbattere muri.

Ho sempre amato la cultura, la comunità ebraica, sono legato a Israele e al rabbino capo di Roma. Ho anche fatto un film, Un cielo stellato sopra il ghetto di Roma. Però in questo momento è proprio difficile pensare qualcosa. Io non saprei che posizione prendere, se non quella banalissima di dire che i conflitti vanno terminati ora, adesso. Però dire: “Hanno ragione loro, hanno ragione gli altri” mi è sinceramente difficilissimo.

Dire “Stop al genocidio” non significa schierarsi contro un altro popolo.

Certo, lo stop al genocidio è evidente che va sostenuto. Stop ai genocidi, stop alla violenza, stop alla guerra. Purtroppo il volano che si è instaurato sembrerebbe irrisolvibile, perché è lì da millenni e continua, e probabilmente continuerà per sempre. Nel momento in cui ti metti a far pareggiare le cose in qualche modo, già vieni giudicato male perché non stai con chi ti racconta così. La mia non è codardia, è proprio che non so dove stia la verità, se non che dovrebbero smetterla tutti. Le vittime del 7 ottobre hanno subito una cosa fra le più brutte che io abbia mai visto nella mia vita, quelle palestinesi in questo momento stanno subendo altrettante brutture che non ho mai visto in questo modo così a tappeto, senza guardare in faccia a nessuno.

È la bruttura contro la bruttura. È una schifezza totale quel che sta accadendo. Qualunque cosa dici viene strumentalizzata, catalogata, schierata, etichettata e subito passi per uno che ha preso posizione. Se uno ha delle convinzioni – cosa che io non ho – è giusto che le manifesti, perché anche quello è bello. “Sono completamente pro-Palestina” libero di dirlo e di farlo. “Sono completamente pro-Israele” libero di dirlo e farlo. Io purtroppo, o per fortuna, ho tantissimi dubbi.

Cristina Capotondi e Lorenzo Balducci in una scena di Margherita delle stelle

Cristina Capotondi e Lorenzo Balducci in una scena di Margherita delle stelle di Giulio Base

Tra qualche giorno presenterà il suo Torino Film Festival. Cosa può anticipare?

Ho una passione, forse un’ossessione per Marlon Brando da sempre. Mi chiedevo, visto che sentivo avvicinarsi questo centenario già da 2/3 anni, quindi quando la nomina di direttore non era nemmeno lontanamente là da venire, dove sarei andato a celebrarlo, a seguire una retrospettiva, a rivedermi tutti i suoi film in sala. Lo prendo come un enorme regalo della vita poter essere io a proporre una retrospettiva di Marlon Brando nell’anno del suo centenario. Non lo so se ce ne saranno altre, sicuramente l’abbiamo annunciata per primi e ne andiamo particolarmente fieri. Il manifesto è una bomba, me lo dico da solo (ride, ndr).

La sua nomina ha suscitato diverse critiche.

Ho cominciato questo mestiere nel 1983. Quando sono stato nominato avevo appena festeggiato i miei 40 anni di carriera. Ne ho viste tante, critiche comprese. Tantissime. Di norma ho una forte passione critica, forse perché anche io, grazie a papà, la prima cosa che ho fatto a 15/16 anni a Torino era scribacchiare critiche su un giornaletto di quartiere, a San Salvario. Ancora oggi le leggo, ma non solo dei miei film, per capire cosa pensate. Ho le mie preferenze e le mie riviste preferite. È una cosa che vivo. Sui miei film quando c’è una critica o un’osservazione sono molto attento, ci rifletto, cerco di migliorarmi.

Rispetto a Torino, piacere non fa. Però sono state scritte delle assurdità. Mi veniva un po’ più da ridere, come dire. Ho quarant’anni di carriera, sono nato e cresciuto a Torino, ho due lauree, frequento i festival di cinema da sempre, so quanto lo conosco e lo amo, conosco il progetto artistico che ho presentato. Per questa volta sì, dopo la piccola feritina- che è un po’ più come la puntura di una zanzara – ho preferito sorridere e andare avanti.

Se avesse potuto scegliere uno dei film candidati agli Oscar nella sua selezione, quale sarebbe stato?

Voglio talmente tanto bene a Matteo (Garrone, ndr), e mi è piaciuto talmente tanto Io capitano, un film così importante, che avrei preso quello. Lo trovo importante non solo per noi europei che capiamo l’odissea che vivono, ma è importantissimo per l’Africa, fa capire cosa li aspetta. Io temo, e Matteo lo conferma, che molti giovani pensano veramente di venire nel paese dei balocchi e basta. O che quel viaggio sì, è difficoltoso, ma basta. Invece Io Capitano fa capire la difficoltà del partire e del sopravvivere. È un film super importante su uno dei temi più importanti che stiamo vivendo nel mondo – conflitti a parte – cioè la trasmigrazione da un continente all’altro. Sono un partigiano per il mio amico Matteo, a cui auguro ovviamente di farcela. Salterei di gioia quasi come lui.