L’estensione del catalogo di Netflix, argomento religioso: nessuno ne ha mai visto la fine ma quella fine c’è. La prova empirica non funziona, si può scrollare per ore ma il limite non arriva. Quante serie, quanti film, ci sono su Netflix? Sfogliando il vocabolario di Zio Paperone: fusomilioni di fantastiliardi. Il sito Netflix Lovers propone un numero più prudente, 7.166 tra film e serie ad oggi. Assodato che sia vero (qualcuno li hai mai contati uno per uno? Degli algoritmi non ci fidiamo), il numero promette una vita d’intrattenimento. Ora, la questione: con 7.166 tra film e serie, come può essere possibile che su Netflix non ci sia mai niente da vedere?
Per i cinefili, poi, la questione si fa ancora più scura. Nel tempo, l’arrivo della competizione ha sottratto a Netflix tante proprietà intellettuali, lasciandogli un catalogo comunque amplissimo, comunque forte, ma molto contemporaneo e molto “originale”: sempre Netflix Lovers sostiene che gli originali nel catalogo italiano della piattaforma siano 3.873, più della metà. I film del passato si sono sparpagliati tra on demand per appassionati (MUBI), piattaforme pubbliche (Rai Play) e cataloghi tornati alle case di proprietà (quello Warner su Max) o acquisiti (quello MGM su Prime Video).
Se non per i film d’autore che essa stessa produce o per i film ancora in licenza (un trend che pare essere di nuovo in crescita), Netflix non è una piattaforma per cinefili. Eppure, la legge dei grandi numeri suggerisce che qualcosa di interessante dovrà pure uscire fuori. E 7.166 è un grande numero. Ostinati, abbiamo scandagliato le profondità del catalogo, toccato quasi il fondo, per suggerirvi sei film di repertorio, chicche che nemmeno Netflix sapeva di avere.
I ragazzi del retrobottega (1949)
Nella sua celeberrima intervista a Hitchcock, Truffaut suggeriva che l’atmosfera inglese, stolida e pioggiosa, fosse inerentemente anti-cinematografica. La filmografia di Michael Powell e Emeric Pressburger, uno dei duetti registici più grandi della storia del cinema, è una contestazione dell’idea dell’autore francese. Con I ragazzi del retrobottega, il duo tornò a lavorare alla London Film Productions di Alexander Korda. Il film precedente lo avevano girato con la Rank Organisation, che li aveva fatti fuori prima ancora che la pellicola uscisse, temendo un flop: Scarpette rosse fu invece il loro più grande successo.
I ragazzi del retrobottega segna una svolta torva: un ritorno al bianco e nero, un’ambientazione bellica, una storia di tristezza e alcolismo. Sammy è ingegnere e artificiere in una Londra invasa dalle bombe-trappola tedesche. Non sopporta i superiori ma soprattutto non sopporta il dolore provocato dalla protesi al piede, annegando le sofferenze nell’alcol. L’ubriacatura ci regala una scena onirica memorabile, in cui Sammy impazzisce di fronte al ticchettare degli orologi e la bottiglia diventa sempre più grande. Il titolo italiano è molto più speranzoso di quello originale, The Small Back Room, la piccola stanza sul retro.
Il vergine (1967)
Alla metà degli anni Sessanta, un alieno vede i film della Nouvelle Vague e pensa “li voglio fare anch’io”. Nel ’67 la nuova onda francese si è già infranta ma imperterrito l’alieno prende Jean-Pierre Léaud per il suo film e lo gira, per qualche motivo, in Belgio. L’alieno era Jerzy Skolimowski, il film era Le départ (in italiano un coraggioso Il vergine), ed è stata effettivamente la partenza di Skolimowski dalla natìa Polonia per il cinema internazionale.
Il film è pazzo, erratico sia nella storia che nella forma (il film che può girare un regista che non parla una parola della lingua locale), un assolo jazz come quello del sax di Gato Barbieri nelle musiche schizofreniche di Krzysztof Komeda. Folle è anche il protagonista del film, Marc, parrucchiere con il pallino delle gare automobilistiche. Per poter gareggiare, Marc ha bisogno di una Porsche ed è disposto a tutto per procurarsela. Come Marc, anche Skolimowski comincia a gareggiare nel ’67, vincendo da subito un Orso d’oro. A quasi novant’anni ancora non ha smesso di fare film assurdi.
Si sente il mare (1993)
Un giorno ciascuno di noi vedrà tutto ciò che lo Studio Ghibli ha da proporre (ma proprio tutto tutto). Per molti alla fine della lista ci sarà Si sente il mare, la nostalgica storia d’amori liceali di Tomomi Mochizuki, il primo film dello studio a non essere diretto né da Miyazaki né da Takahata. Con Si sente il mare la compagnia giapponese tentò di fare un film di buona fattura con costi contenuti e di veloce lavorazione, da mandare direttamente in televisione.
Non si può avere la botte piena e Totoro ubriaco: il costo del film lievitò velocemente, la produzione si allungò e a Mochizuki venne un’ulcera da stress. Il risultato è un film più malinconico, più reale delle solite avventure ghibliane, che però non rinuncia ai quadri pittoreschi tipici dello studio. In Italia, il film è ricordato – come spesso per i film Ghibli – per i memorabili e incomprensibili adattamenti di Gualtiero Cannarsi.
C’era un uomo (1917)
Che la mira dell’algoritmo non sia proprio balistica lo dimostra il fatto che Netflix non ci abbia mai proposto quella decina di film muti che nasconde nel suo catalogo. Dubitiamo che, nella sua lunga carriera di algoritmo, li abbia mai proposti a un singolo abbonato, e anche solo ipotizzare che possa farlo ci terrà lontani a vita da possibili opportunità lavorative nell’ufficio marketing di Netflix. Ma, insomma, per i cinefili più coraggiosi, il muto c’è.
C’è il primo Hitchcock britannico de La moglie del fattore e L’isola del peccato, insieme ad altri classici inglesi, e ci sono alcuni dei capolavori provenienti dall’epoca d’oro del cinema scandinavo (su Netflix!). Qui proponiamo C’era un uomo nel restauro dell’Istituto Cinematografico Svedese, uno dei maggiori film del maestro del muto, Victor Sjöström. Ai tempi fu il più costoso film di sempre per il paese ed è considerato il film che fece partire l’epoca d’oro del cinema svedese.
Konga (1961)
Torniamo sani di mente – nemmeno per idea – proponendovi un film non solo sonoro, ma anche a colori, un film che si chiama Konga, in cui uno scienziato pazzo manda un gorilla ipnotizzato a uccidere per suo conto degli scienziati rivali. Grazie a sieri tratti dalle piante carnivore, la scimmia si ingrandisce a dismisura per andare a prendersi il Big Ben e un 33% di gradimenti su Rotten Tomatoes. Filmaccio di quelli fatti talmente male da sembrare artistici, Konga fu girato per lanciare una serie di fumetti disegnati da Steve Ditko, che di animali radioattivi poi si sarebbe occupato nuovamente creando un tale Uomo Ragno.
Il processo di selezione di Paul Stockman per il ruolo di Konga è leggendario: “Cercavano un attore alto un metro e ottanta. Il produttore Herman Cohen entrò nell’ufficio portando una grossa scatola di cartone. Disse: «L’attore di cui ho bisogno deve essere alto esattamente un metro e ottanta, quindi se sei alto uno e settantanove o uno e ottantuno, grazie per essere venuto ma non farai il film». Se ne andarono tutti tranne altri due ragazzi. Il produttore aprì una scatola di cartone e tirò fuori un copricapo da gorilla. Dato che gli altri ragazzi avevano gli occhi azzurri non avrebbero potuto fare il gorilla, così ottenni la parte”.
I professionisti (1966)
Al confine col Messico, un proprietario terriero assolda quattro professionisti per recuperare sua moglie Maria, rapita dal bandito ex rivoluzionario Jesus Raza. È una delizia: Burt Lancaster fa l’esperto di esplosivi, Lee Marvin l’armaiolo e un’ombrettatissima Claudia Cardinale fa la moglie rapita, che poi tanto rapita si mostrerà non essere.
Ha ragione Kevin Costner quando dice che la narrativa sul west è stata per gli Stati Uniti ciò che Shakespeare è stato per l’Inghilterra. Come i più grandi western, I professionisti è fatto di grandi paesaggi ma anche di grandi dialoghi: “Che altro hai nella testa oltre le donne, il whisky e le sbarre d’oro zecchino?”. “Nient’altro: hai scritto il mio epitaffio”, ma anche il classico: “Tu sei un bastardo”. “È vero, però io ci sono nato mentre lei si è fatto da solo”.
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