L’infinito sequel di cinema e serie tv, così il marketing soddisfa la voglia di eternità del pubblico

La scommessa industriale per riempire le sale è puntare sulla familiarità, dai film Marvel ad Avatar 2 e già si parla del seguito di Barbie. Ma non avere una fine, oggi, è un modo di stare al mondo: una sorta di metabolismo eterno che provoca una fame costante, insaziabile

Film e serie tv non finiscono più. Nemmeno i sequel hanno più un finale ma un altro sequel. E poi un prequel, un remake, uno spin-off, magari un franchise. Nessuno riposa in pace. I programmi tv cancellati vengono restaurati. I personaggi uccisi resuscitati. I film creati col seguito in tasca. E i social media sono progettati per lo scrolling infinito. Non finisce più niente.

La scommessa industriale per il settore cinematografico nel 2022 – lo dice il box office – è stata la riesumazione, per riempire i cinema, dai film con Tom Cruise e di James Cameron a Matrix e i supereroi Marvel, dai Minions a Harry Potter e Batman, fino a Greta Gerwig che fantastica sul sequel di Barbie. Nel 2023 sono stati quasi cento i film in preparazione partiti da temi lasciati in sospeso. Non è solo il cinema. Nuovi episodi di Boris sono tornati dopo dodici anni su Disney + e sono stati annunciati le serie di Harry Potter e di Twilight.

Le major, si sa, puntano sul successo della familiarità. Perché tra cliffhanger e versioni live action il biglietto si vende da solo. Ma forse accade qualcosa di più grande, come anticipava Frank Kermode nel suo saggio Il senso della fine degli anni ‘70. Forse le trame che imponiamo alla realtà diventano più complicate perché è più difficile – o impossibile – pensare il mondo come un luogo di inizi e di addii.

Dal romanzo al contenuto

Esistiamo intermedi, nasciamo e moriamo in mezzo alle cose. E la velocità con cui le storie si espandono supera la nostra capacità di linguaggio. Il termine “sequel” non basta più. Non è sufficiente per descrivere l’Endgame degli Avengers. Né l’universo di Star Wars. Nel frattempo, su schermi più piccoli, i social media producono contenuti senza fine.

Nel suo saggio Il Narratore Walter Benjamin dice che la parola fine serve per dare un senso alle storie. Abbiamo bisogno della morte dei personaggi per dare un senso a noi stessi. Oggi il romanzo, col suo impianto aristotelico di inizio, svolgimento e fine, è stato soppiantato dalla logica del fumetto: gli avvenimenti si estendono all’infinito e i buchi della trama vengono rattoppati con dei reboot, nuovi inizi delle stesse storie.

E a dire il vero Benjamin l’aveva già capita questa erosione della fine, contrapponendo alla “narrazione” l'”informazione”, che oggi potremmo chiamare “contenuto”. Un romanzo ha l’obbligo di terminare con la fine delle pagine. I contenuti no, arrivano in continuazione. È un’architettura senza confini come quella digitale.

Sequel e finali divisi in due

La sensazione di aver visto un intero film in attesa che tutte le cose accadano è riconducibile non solo ai cliffhanger ma anche ai finali divisi in due parti. Si potrebbe dare la colpa al Signore degli Anelli, che terminava il suo primo capitolo con l’inizio ufficiale della sua missione principale, ma bisogna ammettere che Peter Jackson ha dato a ciascun pezzo della trilogia un compimento autonomo. Il problema è iniziato forse con Harry Potter e i Doni della Morte, che ha allungato il settimo libro per non eliminare niente. La logica di dare ai fan tutto quello che vogliono è stata riproposta anche con The Hunger Games. È una sorta di metabolismo eterno che provoca una fame costante, insaziabile.

Piuttosto che condensare la letteratura, film come It e Dune hanno distribuito la loro narrazione su una tela ampia quanto basta, sperando inoltre di intervenire in itinere, sfruttando i commenti degli spettatori e il loro affiatamento nell’attesa della parte due.

Un business e un modo di stare al mondo

Oggi i nostri dati sono diventate le narrazioni di Benjamin. Netflix può commissionare un remake anche in base agli utenti che guardano l’originale, Amazon può calcolare il valore delle sue produzioni originali in base al numero di abbonamenti che generano. E Disney, il più grande archivio di idee, può ricostruire, aggiornare, ricontestualizzare.

Questo delinea il modello di business di Hollywood: gli studi cinematografici non si occupano più di vendere film. L’obiettivo è l’attenzione delle persone, fanno a gara per catturarla, propongono la familiarità, investendo nelle stesse idee e negli stessi personaggi il più a lungo possibile.

Le storie sembrano far saltare l’esito che gli sarebbe connaturato. Funzionano, dunque, la scarnificazione del fatto, della narrazione, e la produzione di finali enigmatici, sospesi, interrotti, assenti, circolari. Non concludere e non finire è, oggi, un modo di stare al mondo.