Questo articolo sul Quadraro è stato pubblicato nell’edizione cartacea di The Hollywood Reporter Roma, Numero 1, in cui i protagonisti della 18esima edizione della Festa del Cinema di Roma raccontano la loro Roma e i loro luoghi del cuore.
“Quelli del Quadraro sono fuori posto ovunque, gente nobile in un mondo ignobile”. Sandro Bonvissuto, lo scrittore cameriere di La gioia fa parecchio rumore (Einaudi), lo definisce così il quartiere romano in cui è nato. Una sorta di triangolo rovesciato delimitato da Torpignattara, Centocelle e l’Appio Claudio. Poco più di un chilometro e mezzo in cui si condensano oltre 20 mila abitanti. Basta lasciarsi alle spalle gli archi dell’acquedotto Felice di Porta Furba per vedere dall’alto quell’ex borgata rimasta paese nella città.
Villini di massimo tre piani che lasciano poi il posto, nella parte nuova del quartiere, alle palazzine popolari costruite nel dopoguerra. Tagliato in due da quella via Tuscolana che arriva fino agli studi di Cinecittà con cui, dal 1937 – anno di costruzione degli studi cinematografici a cui si aggiungerà anche l’edificio dell’Istituto Luce – si è creato un legame indissolubile, il Quadraro ne è stato a tutti gli effetti un’estensione.
Il Quadraro: quartiere delle maestranze
Perché nella mente di Mussolini e dei gerarchi fascisti quel lotto di terra abitato dalla parte più povera di Roma sarebbe diventato la casa delle maestranze che, in bicicletta o a piedi – prima che il tram da Termini attraversasse tutta la via Tuscolana – ogni giorno si recavano nella città del cinema. La stessa che aveva preso il posto degli studi della Cines distrutti da un incendio un paio di anni prima. E così, tra i tavolini delle vecchie osterie romane, tra un bicchiere di vino rosso dei Castelli e la melodia di uno stornello intonato alla chitarra, si potevano incontrare stunt, macchinisti, divi mancati, comparse e sartine.
Chissà quanti sogni e speranze. Chissà quante cocenti delusioni. Magari seduti a parlare della giornata trascorsa a Cinecittà, tra prove costumi e ciak, a La primavera, trattoria storica di via Tuscolana 555 gestita dalla contessa Elvira Locatelli. Un tempo rivendita di vino e formaggi, poi trasformata in attività di ristorazione prima di essere chiusa negli anni Novanta.
Ma tanto era forte il legame con il cinema che, prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, in quel piccolo dedalo di stradine di borgata furono costruite due sale. Uno, il più grande, chiamato Cinema Quadraro – oggi demolito – si trovava alla fine della discesa di via Tuscolana ed era lì che si proiettavano le prime visioni. Per vedere i film italiani o americani di “seconda mano” invece si andata in via dei Quintili, al Cinema Folgore – diventato sede della chiesa evangelica coreana – dove il biglietto costava 80 lire e alla cassa si potevano comprare bruscolini e mostaccioli per accompagnare la visione.
In quella stessa via, al civico 63/A, fino al 2022, Luigi Scarano, detto Gino, è stato il custode della memoria storica del Quadraro. Dal 1947 lavorava nel negozio di barbiere del padre. Chiamato da tutti “il barbiere di Totò” per aver fatto, da ragazzino, la barba al Principe, Gino ha visto passare nella sua bottega molti degli attori più celebri di allora come Alberto Sordi, Aldo Fabrizi e Nino Manfredi. Con la sua morte se n’è andato anche un pezzetto del quartiere.
Un “nido di vespe” contro i nazisti
Lo stesso nato sotto l’ombra del regime di Mussolini. Ma i fascisti prima e i nazisti poi non avevano fatto i conti con quel “nido di vespe” che era il popolo del Quadraro. “Gente nobile in un mondo ignobile” che, quando la città fu occupata dai tedeschi, divenne il simbolo della resistenza antifascista di Roma. “Si te voi nasconne o vai ar Vaticano o ar Quadraro”, recita un vecchio detto. È lì che, durante i nove mesi di occupazione nazista, a cavallo tra il 1943 e il 1944, gli abitanti del quartiere diedero rifugio agli ebrei e respinsero l’avanzata nazista dando filo da torcere al comandante della Gestapo a Roma, Herbert Kappler, che coniò l’appellativo “nido di vespe” con cui ancora oggi viene rappresento il Quadraro.
Ne è un esempio il murales – uno dei tanti che animano il quartiere grazie a MURo, il museo di urban art a cielo aperto fondato nel 2010 da David Vecchiato – raffigurante i baldanzosi insetti gialli, opera dello street artist Lucamaleonte in Via del Monte del Grano per i settant’anni dal rastrellamento del 17 aprile del 1944.
Quando ancora non era sorto il sole, le truppe tedesche fecero partire l’operazione “Balena”. Oltre duemila uomini tra i 15 e i 65 anni furono dapprima riuniti all’interno del Cinema Quadraro e poi deportati nei campi di concentramento. Ne tornarono a casa pochissimi. Per quell’esempio di resistenza, con colpevole ritardo, solo il 17 aprile 2004 al quartiere venne assegnata la medaglia d’oro al merito civile. “A chi romanamente cadde”, recita la targa su via dei Lentuli. Finita la guerra c’erano solo cumuli di macerie, umane e materiali, da spazzare via. E ancora una volta la storia del Quadraro si intreccia con quella del cinema.
Il Quadraro al cinema
Vittorio De Sica nel 1956 firma il suo ultimo film neorealista, Il tetto. La storia della giovane coppia protagonista è il pretesto per raccontare la realtà dei baraccati e dell’autocostruzione tipica di quegli anni. In una scena si mostra l’edificazione della chiesa di Don Bosco. La stessa che Nanny Loy immortalerà in una sequenza notturna, tre anni dopo, in L’audace colpo dei soliti ignoti. Ma il Quadraro è stato anche lo sfondo scelto da Mario Monicelli per una delle scene chiave di Un borghese piccolo piccolo (1977), con il pedinamento lungo la via Tuscolana fino agli edifici INA Casa di Largo Spartaco compiuto dal protagonista con il volto di Alberto Sordi alla ricerca dell’assassino del figlio.
In quello stesso luogo, nato come intervento statale dovuto all’emergenza abitativa del dopoguerra, Anna Magnani era Mamma Roma nel film omonimo di Pier Paolo Pasolini. L’ultima inquadratura del film è dedicata al futuro: una schiera di palazzoni popolari e la cupola di Don Bosco a svettare. Nel 1960 anche Federico Fellini girò parte delle riprese de La dolce vita nella piazza antistante la chiesa. E così Antonio Pietrangeli che, nel 1961 con il suo film Fantasmi a Roma, denunciò la speculazione edilizia e lo sfratto dei vecchi romani dal centro storico. Un quadrante della Capitale che è simbolo e metafora e che in quegli anni provava a voltare pagina. Anche grazie al cinema.
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