Caschetto corto biondo e vistosi occhiali griffati scuri. Maria de Medeiros indossa un delizioso manteaux a pois, con una blusa marrone, pantaloni aderenti e stivaletti di camoscio dai tacchi alti. Si presenta così, con un look a la parisienne, alla presentazione del suo film Capitani d’Aprile, nell’ambito della terza edizione di LUSO!, la mostra itinerante del nuovo cinema portoghese.
Partito da Roma, l’evento itinerante arriverà in altre città italiane e quest’anno sarà accompagnato anche da una mostra fotografica sui 50 anni dalla Rivoluzione dei Garofani: la prima tappa si è tenuta proprio a Roma, il 30 e 31 maggio 2024, al Cinema Farnese.
“Forse perché in tanti anni che vivo lì ho assimilato l’estetica di Parigi. Quando lavoro in Brasile, dove ho fatto parecchi progetti, quasi sempre mi identificano come francese. È divertente, perché l’aspetto oramai è quello. In effetti non è così strano avendo le due nazionalità” risponde divertita l’attrice e regista portoghese quando le facciamo notare che il suo look non è per niente lusitano ma decisamente parigino.
Appare completamente diversa in scena a teatro, camaleontica, con i baffi sottili, il cappello di feltro nero calato sulla fronte e gli occhiali rotondi, quando interpreta il grande poeta Fernando Pessoa, nel nuovo spettacolo di Robert Wilson presentato nei giorni scorsi in prima mondiale al Teatro della Pergola di Firenze.
Maria de Medeiros è pura grazia, un mix di simpatia e riservatezza, un dolcezza che incanta, come un volto da vecchio film muto in bianco e nero. Per molti è rimasta invece la Fabienne di Pulp Fiction o l’Anaïs Nin di Henry & June.
Lei ha lavorato molto in Italia, scegliendo però sempre dei film d’autore a volte anche non facili. Perché questa scelta autoriale? Eppure dopo il successo di Pulp fiction avrebbe potuto scegliere qualcosa di più popolare e magari redditizio.
Mi è capitato qualche volta di ricevere dei progetti che veramente ho sentito non fossero per me. I film d’autore spesso mi arrivano perché già hanno pensato che ci sia una corrispondenza, accetto se la sento anche io. Sono un po’ come le storie d’amore, c’è una magia, un incontro intuitivo.
Mancava da molto a Roma?
Sì, da un anno circa: da quando ho partecipato a Giorni Felici di Simone Petraglia. Per me è sempre una festa tornare qui, ho tanti amici. Penso ad esempio ad Antonietta De Lillo con cui ho fatto Il resto di niente. Un film che amo molto.
Tra tanti i film che ha fatto in Italia è quello che cita più spesso.
Lo cito perché il film è italiano, ma l’ho anche amato molto. Dopo tanti anni passati a lottare per fare un film sulla rivoluzione portoghese dei Garofani, è arrivato questo progetto di Antonietta, su un’altra rivoluzione. Per me è stato un dialogo molto interessante lei, una regista che ci ha messo tanto per fare quel film.
E poi, ci ha messo una parte della sua vita, esattamente come avevo fatto io per il mio progetto. Penso che per tutti sia una grande lotta fare un film per le donne. Ancora di più quando si tratta di fare film su rivoluzioni, sono progetti molto ambiziosi.
Sono passati 50 anni dalla Rivoluzione dei Garofani, che cosa è cambiato da allora? Si sta per votare per il rinnovo del Parlamento Europeo. Avverte un pericolo per la democrazia?
Sì, è molto inquietante la mancanza di memoria. La Rivoluzione dei Garofani è stata una rivoluzione così esemplare, un riferimento di rivoluzione pacifica assolutamente umanista. Anche molto originale, perché nonostante sia stata fatta da uomini di guerra, da soldati professionisti che venivano da una guerra coloniale terribile di 13 anni, possiamo definirlo un colpo di Stato perfetto. Un’azione che ha avuto l’appoggio assoluto della popolazione portoghese. Com’è possibile che ormai 50 anni dopo ci sia un reale pericolo di dimenticare tutto?
Si è chiesta perché oggi ci si dimentica del fascismo così facilmente?
C’è un processo molto organizzato per far dimenticare. Secondo me c’è qualche tipo di processo in atto, si sente: com’è possibile che i discorsi siano tutti così simili, retrogradi allo stesso modo? Hanno un modello che si riconosce, è inquietante.
Le persone di cultura, di cinema, teatro, letteratura possono ostacolare questo processo?
Noi possiamo fare altri film, altri libri, ma per fare un film bisogna che ci sia una voglia politica. Io lo so bene, per fare Capitani di Aprile ci sono stati 13 anni di combattimenti e alla fine l’abbiamo fatto quando c’è stata un desiderio politico in Portogallo di raccontare quegli eventi.
Per me era molto importante raccontare questa storia come una storia europea, avendo una co-produzione italiana, spagnola, francese. L’arte è sempre stata dipendente dall’aiuto del potere. Dobbiamo andare sempre avanti, scrivere e fare, ma non possiamo rimanere soli.
Perché ha scelto Stefano Accorsi come protagonista di Capitani di Aprile?
C’era questa idea che bisognasse avere un attore protagonista italiano. Ci sono francesi nei film, ci sono spagnoli, io sono venuta qui e mi hanno proposto gli attori giovani che in quel momento andavano bene. Quando ho visto Stefano è stato evidente che avrei scelto lui, perché assomiglia moltissimo a Salgueiro Maia.
Ho avuto la fortuna di conoscerlo, è stato la figura più eroica della rivoluzione: era un ragazzo di 29 anni, che veniva dalla guerra coloniale. Si è trovato in tutti i momenti nei posti di più grande responsabilità della rivoluzione. Un uomo anche molto timido, che parlava poco. E insomma, Stefano ha captato immediatamente e profondamente il personaggio.
Racconto sempre che, all’inizio, la vedova di Salgueiro Maia si lamentava che avessimo scelto un italiano per interpretare il marito, ma quando poi ha visto Stefano si è messa a piangere, perché gli assomigliava tantissimo.
Tornando alla politica, ha visto il film di Paola Cortellesi?
No, ma lo vedrò presto, perché è uno dei film che devo vedere assolutamente.
Lei può essere considerata un’attrice non solo portoghese, lavora molto e spesso in altri Paesi come Francia, Spagna, Italia. Questo suo essere europea l’ha aiutata nella sua carriera, oppure l’ha un po’ penalizzata?
Forse tutte e due. Ma avrei scelto sempre qualche professione che includesse il viaggio, l’essere in contatto con diverse culture: ho avuto già un’infanzia molto europea. Ho vissuto in Austria e ogni estate per andare in Portogallo facevamo in macchina tutta l’Europa.
Anche i miei genitori amano le lingue, c’era questo gioco di cambiare la lingua e capire le differenze di culture, di società. Avevamo amici in diversi Paesi, quindi sono cresciuta così. Non ho il problema di sentirmi sempre straniera: lo sono anche un po’ nel mio paese, ma penso che il pianeta sia nostro e anche qui in Italia mi sento a casa.
Se oggi dovesse definire una casa, quale città, in quale Paese sarebbe?
C’è casa a Parigi, ovviamente un po’ in Portogallo, perché c’è tutta la mia famiglia lì. E poi c’è la famiglia che scegliamo, che sono gli amici, che sono dappertutto.
Da diversi anni lei fa anche la regista, è cambiato anche il suo modo di essere attrice?
Sì, prima non volevo guardarmi. Poi è arrivata la possibilità di fare un film tratto da un’opera teatrale che avevamo fatto con Luis Miguel Sintra, un grande attore portoghese, su Pessoa. Abbiamo fatto questo spettacolo, e poi sono arrivati l’idea, il progetto e anche i soldi per farne un film in 35 mm. Quindi, sono stata obbligata a vedermi anche come una regista, e questo mi ha aiutato moltissimo.
Adesso penso che sia molto importante che gli attori si conoscano, essere la regista di me stessa senza dubbio mi ha fatto conoscere meglio gli strumenti che ho a disposizione e mi ha fatto avanzare tantissimo nella recitazione. Anche dopo, quando torno ad essere solo attrice, è meraviglioso perché sono così rilassata e non faccio mai la guerra ai registi, e questo cambia anche il loro modo di rapportarsi. Sì, assolutamente fantastico.
E cose di cui va fiera come regista, oltre al film di questa sera?
Una cosa che non è molto recente, ma che ha a che vedere con Roma: un documentario su Denise Crispin. Una donna brasiliana straordinaria che ha avuto una storia incredibile.
Sono venuta a intervistarla qui a Roma e, per una coincidenza straordinaria, lei vive nel complesso dove si è girata Una giornata particolare. E anche un altro film che ho fatto in Brasile, legato alla questione dei bambini nelle coppie gay.
Ricerca sempre cose socialmente impegnate da raccontare?
Un po’, sì. Politicamente e socialmente. È già così difficile fare un film, devi essere disposta a impegnarti a dare anni della tua vita per un progetto, deve valerne la pena.
Pessoa è molto presente nella sua vita professionale. È lei che insegue Pessoa, o è Pessoa che la rincorre?
Penso che sia anche perché Pessoa è ricorrente nella vita di tutti i portoghesi. Sono contenta di tornare da lui, dopo tanti anni, in una maniera sempre diversa.
Ne La morte del principe c’era la figura del principe Luigi Miguel Sintra; io ero più o meno una Salomé, giovanissima. Adesso, invece, sono un po’ Pessoa stesso, un po’ androgino. È sorprendente la visione di Bob Wilson di Pessoa, mi piace molto. Tornare a parlare di lui è così ricco e diverso, e ci sono così tante possibilità.
Spesso quando si fa cinema poi si abbandona un po’ il teatro, invece lei ha continuato a farlo parallelamente alla sua carriera cinematografica. Che significa per lei fare teatro?
È la prova massima. Il teatro è il grande rischio della vita, il cinema un giocattolo, la musica la medicina dell’anima. Ad esempio, c’è un’attrice che ammiro moltissimo e che mi interessa moltissimo in tutto quello che fa: Isabelle Huppert.
Anche lei fa sempre teatro, adesso sarà Bérénice di Romeo Castellucci, e questo mi sembra molto importante per la nostra ricerca di attrici, per la conoscenza della nostra arte. Poter fare tutto questo ping pong tra il palcoscenico e il set cinematografico è fondamentale.
Lei ha fatto anche uno spettacolo, Ossessione napoletana a teatro di Mauro Gioia, che ha poi portato anche a Parigi. Com’è stato l’approccio con la canzone napoletana?
Mauro è veramente un amico da tanti anni e da tanti progetti. Sono molto grata perché lui mi fa sempre nuove proposte. La prima volta che ho cantato con lui era uno spettacolo su Nino Rota con cantanti internazionali.
Dopo, abbiamo fatto uno spettacolo su alcune canzoni sociali, con bellissimi brani di Pasolini, di Moravia e Dario Fo. Pezzi molto sociali e molto rivoluzionari. In quello spettacolo il cantante napoletano è lui, per me è come fare un viaggio musicale, un dialogo tra canzoni napoletane e canzoni del mondo.
So che ha girato due film che usciranno a breve.
Quest’anno abbiamo girato Le Roi Soleil di Vincent Cardona, un giovane regista che ha già ottenuto un César con il suo primo film. Le Roi Soleil è un film molto nero e nuovo. Parla del rapporto della nostra società con i soldi, il “Roi Soleil” non è altro che il denaro.
Dopo quell’esperienza molto noir, ho fatto La Quinta, di una regista spagnola di Valencia, Verina Prats, una coproduzione con il Portogallo. È l’opposto, perché è qualcosa di molto bucolico, contemplativo, girato nel nord del Portogallo. Per me è stato bellissimo perché, giusto prima di andare a Firenze a fare il Pessoa, era come essere in una sua poesia di Alberto Caeiro, il guardiano di greggi. Avevo l’impressione che tutto il film fosse come essere dentro a quei lunghi, ai poemi sui greggi e la vita nel campo.
Progetti in Italia?
So che torneremo in Italia con lo spettacolo di Bob Wilson, sicuramente, in altre città italiane. Andremo prima a Parigi, poi Lisbona, ma di sicuro torneremo in Italia.
Il suo look comunque è diventato molto parigino. Guardandola, non direi mai che è portoghese.
Forse perché in tanti anni ho assimilato l’estetica di Parigi. Ad esempio, quando lavoro in Brasile, dove ho fatto anche parecchi progetti, quasi sempre mi identificano come francese. È divertente perché l’aspetto è quello, ormai ho due nazionalità.
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