L’anno dell’uovo: amore, new age e devozione nell’esordio a microbudget di Claudio Casale

Uno dei tre titoli presentati nella sezione di Biennale College, con un budget di 200.000 euro, il film racconta il crollo di ideali di una coppia in attesa del primo figlio. Con Regina Orioli nei panni della santona devota al Grande Uovo

Il romano Claudio Casale, 37 anni, crede nei simboli. Ci crede talmente tanto che non si sorprende nel vedere quante coincidenze si siano sovrapposte nell’ultimo periodo della sua vita. Nel 2023 esce a Venezia L’anno dell’uovo, il suo primo film, e diventa papà per la prima volta. La pellicola, frutto dei workshop della Biennale College e opera a micro-budget (200.000 euro) presentata al Lido, è il ritratto di una genitorialità anticonvenzionale. La storia è quella di una coppia in attesa del primo figlio, interpretata da Yile Yara Vianello e Andrea Palma, che sceglie di far crescere il bambino all’interno di una comunità spirituale fittizia, guidata da una guru (Regina Orioli) e consacrata alla fertilità – di cui l’uovo del titolo è totem e simbolo.

Quali sono gli elementi fondanti della “comunità dell’uovo”?

È difficile dirlo, ci ho messo dentro molti pezzi di me. Ero arrivato al punto che, se non mi avessero finanziato il film, probabilmente mi sarei aperto la mia comunità. Non mi sono riferito a culti o religioni esistenti. La pellicola è un contenitore di tecniche e pratiche new age, molto di moda oggi. Come un supermercato della spiritualità. Di cui io, tra l’altro, ho la tessera fedeltà.

Il film non prende le parti della comunità, ma non la demonizza nemmeno.

Voglio che sia lo spettatore a decidere da che prospettiva guardarla. Sono contento che il film non sia una parodia di altre comunità e che, allo stesso tempo, si capisca che non si deve necessariamente prendere tutto sul serio. L’anno dell’uovo è un’opera su due persone, sulla loro esperienza. Gli attori hanno fatto molte prove per sembrare autentici. Non volevo che passasse l’idea che tutte le persone che frequentano le comunità siano dei cretini o dei serial killer.

La spirtitualità influenza il suo modo di concepire il lavoro?

Il flusso creativo è una strana lavatrice in cui si inseriscono spesso elementi inconsci. Certamente la pittura influenza il mio modo di girare i film. Amo il cinema, ma è la pittura l’arte cui guardo con più rispetto. Quando riesco a inserirla in un film mi sento “elevato”. Ne L’anno dell’uovo c’è Monet, ci sono gli impressionisti e il loro modo di raccontare la luce. Anche i protagonisti inseguono la luce, in un certo senso, provando a superare il dolore attraverso la ricerca di un equilibrio.

Troverebbe riduttivo definire L’anno dell’uovo una storia d’amore?

Per me è sempre stata una storia d’amore. Ho deciso di ambientarla nella comunità dell’uovo, ma avrebbe potuto svolgersi anche in un grigio palazzone di Latina. Il film ha una storia, ma è il legame tra i due protagonisti il suo cuore, il suo battito.

Nel film emerge il tema della rinuncia. È importante sapersi lasciare alle spalle le cose?

Sì, nel nostro mestiere soprattutto. Servirebbe un ciclo di lezioni sulla rinuncia. In tutti i settori creativi c’è un problema di ego che divora ogni cosa. Seguire i workshop è stato una doccia rigenerante, anche da questo punto di vista. E poi, mentre stendevo il film, ho scoperto che stavo per avere una figlia: l’avevo voluta tanto, eppure non potevo dedicarmici quanto avrei desiderato. Una specie di cortocicuito. Eppure è proprio rinunciando a qualcosa, che ne capisci l’importanza. Certo, è una bella follia quando tutto si sovrappone: mentre facevo i corsi preparto faticavo a non pensare a cosa, di quell’esperienza, sarebbe finita in sceneggiatura. Ma queste coincidenze sono inevitabili quando si lavora con i simboli.

La devozione di cui sono capaci i suoi personaggi è rara.

La devozione è una delle azioni più importanti che possa compiere l’uomo. Oggi soprattutto. Può essere rivolta a qualsiasi cosa, ma la mia generazione sembra averla persa in nome di interessi meramente individuali. L’ho imparato tardi nella vita.

Come ha vissuto l’esperienza di Biennale College?

Ci si sente fortunati. Arrivi a San Servolo, un’isola piccolissima, ed entri in contatto con tutor internazionali di altissimo livello. Soprattutto devi capire come realizzare un film in meno di dodici mesi.

E come si realizza un’opera a micro-budget?

È questione di non solo di budget, ma di tempo. È fondamentale concentrarsi su ciò che si vuole raccontare. Essere precisi, andare all’osso, all’essenza delle cose. Volevo mettere in scena un intero mondo, circoscrivendo le emozioni. Per questo il film si concentra sulla comunità dell’uovo, nient’altro. Cercavo un sentimento specifico: la caduta di tutti i valori in cui si crede, in seguito a un evento drammatico.  Oggi nessuno si confronta più con gli altri sui valori autentici e fondanti. Nelle comunità, invece, si condivide un bacino collettivo.