Tatami: Israele e Iran sul ring contro il regime, per la prima volta insieme. “Nel nome della libertà”

In concorso a Orizzonti, il dramma ambientato nel mondo del judo è stato girato in segreto a Tblisi, nella capitale della Georgia. I due registi, l'israeliano Guy Nattiv e l'iraniana Zar Amir: "Abbiamo scelto il bianco e nero perché la vita di chi sfida il regime non è a colori"

Ci vuole tempo per capire se un film farà o meno la storia ma Tatami, presentato in anteprima mondiale al concorso Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia il 2 settembre, l’ha già fatta di sicuro. È il primo film co-diretto da un israeliano, Guy Nattiv, e da un’iraniana, Zar Amir. Una relazione che i due, seduti uno accanto all’altro, raccontano come “straordinaria” e “solo il primo passo per un cambiamento di visione dei rapporti tra i due paesi”. Israele e Iran si definiscono a vicenda “Great Satan”, il male assoluto, e in Iran è vietato anche solo pronunciare parole legate a Israele. “Quando Nattiv mi ha chiamato per un film da co-dirigere ho avuto bisogno di qualche giorno per capire in che direzione stavo andando, poi ci siamo fidati subito”, dice lei. “Ci siamo riconosciuti come anime simili”, conferma lui.

Mancano pochi giorni e sarà il primo anniversario della morte di Mahsa Jina Amini, ventiduenne curda arrestata e uccisa dalla polizia morale di Teheran per aver indossato l’hijab “in modo inappropriato”. Questa morte ha incendiato le strade dell’Iran e il grido “donna, vita, libertà” ha risuonato in tutto il mondo, anche all’80esima Mostra del Cinema, con un flashmob dedicato sul red carpet.

La brutale repressione da parte delle autorità ha provocato la morte di più di 500 persone e l’arresto di decine di migliaia. Ma la resistenza, oltre che tenere acceso il fuoco della protesta, ha dato vita anche a questa inedita collaborazione per portare sullo schermo la persecuzione del regime.

Tatami

Zar Amir e Guy Nattiv sul Red carpet di Venezia 80 col loro film Tatami

Tatami è la storia di Leila (Arienne Mandi di The L Word), judoka iraniana che gareggia per l’oro ai Campionati mondiali e a cui viene ordinato dalla Repubblica islamica di fingere un infortunio e di abbandonare la competizione, proprio affinché non sfidi la rivale israeliana. “Lo judo è un’arte marziale che ha lo spirito dell’onore, dell’amicizia e soprattutto della resistenza, non sarebbe stato lo stesso film se avessimo scelto un altro sport da combattimento”, dicono Nattiv e Amir.

Tatami: Israele e Iran mai così vicini

Guy Nattiv, famoso per l’Oscar al suo cortometraggio Skin, e Zar Amir, migliore attrice a Cannes 75 per Holy Spider di Ali Abbasi, hanno girato in segreto nella capitale della Georgia, Tblisi. Tutti gli attori del film sono iraniani in esilio. La città è tra l’Iran e l’Israele (a circa due ore da ciascuno), ma era perfetta “perché c’è la stessa architettura dell’era sovietica della metà del secolo che si ritrova a Teheran e poi è considerata la capitale dello judo”. Tatami è infatti il nome del tappeto su cui si combattono gli incontri.

L’idea venne a Nattiv qualche anno fa. “Sono rimasto impressionato dalla storia di Sadaf Khadem, la prima pugile iraniana”. Nel 2019, Khadem ha gareggiato in Francia e, rischiando l’arresto per non aver indossato l’hijab, obbligatorio in Iran, non è mai tornata. “Ho iniziato a cercare storie simili e con stupore ne ho trovate molte”. Come quella della campionessa di taekwondo Kimia Alizadeh, che vinse una medaglia di bronzo per l’Iran alle Olimpiadi di Rio 2016 ma nel 2020 scappò in Germania, dopo aver denunciato il governo iraniano, rappresentando poi la squadra olimpica dei rifugiati. O il judoka Saeid Mollaei a cui fu ordinato di rinunciare a un incontro nei campionati del 2019 per evitare di affrontare un avversario israeliano.

“Ma non sono iraniano né sono una donna, quindi questo film non avrei mai potuto farlo da solo”. Così Nattiv ha chiesto prima aiuto a Elham Erfani, attrice e sceneggiatrice iraniana che vive a Parigi, e poi a Zar Amir. “Le ho chiesto se volesse interpretare il ruolo cruciale di Maryam, allenatrice di judo di Leila, che la implora di soddisfare le richieste dell’Iran e di tornare a casa”. L’autore israeliano però non voleva un film solo dal suo punto di vista. “Ci ho pensato bene prima di dire sì”, racconta Amir, “anche perché avevo paura delle critiche, ma poi ho deciso che era un progetto fondamentale per la mia carriera. Adesso che il film è stato annunciato è stato commovente non ricevere alcuna critica ma solo commenti di sostegno e approvazione”.

Israele e Iran non sono mai stati così vicini ed è una sensazione che entrambi ci tengono a sottolineare: nessuno ha provato uno shock culturale. “Ci sono voluti cinque minuti per diventare migliori amici e familiari”, dicono. “Mangiamo le stesse cose, ascoltiamo la stessa musica e amiamo lo stesso cinema”, dicono. “Non è affatto come incontrare il nostro peggiore nemico, come ci dicono a scuola da quando siamo piccoli”. Questa relazione, sperano, potrà ispirare molti altri ad aprirsi. “Siamo una generazione che al contrario dei nostri padri è riuscita a dire no e dalle persone più giovani, e più aperte ancora, abbiamo preso tanta forza”.

Un film claustrofobico in bianco e nero

La scelta di girare il film in bianco e nero è stata quasi obbligata, raccontano. “La vita delle donne iraniane non è a colori, è in bianco e nero, o con il regime o fuori”, dice Nattiv. “Siamo abituate a convivere con questa contrapposizione, sempre, anche in famiglia, capita che un fratello e una sorella abbiano idee opposte”, racconta lei.

Il film si svolge nel palazzo dello sport per la maggior parte del tempo, “per dare l’idea della claustrofobia e della persecuzione che vivono ogni giorno gli iraniani che sfidano gli ayatollah”. Solo dopo un anno, quando Leila gareggerà nella squadra dei rifugiati contro il suo stesso paese, ormai abbandonato, si sale su un pullman e si vede la campagna dal finestrino.

“L’aria non manca alle persone che stanno dando la vita per la libertà in Iran”, dice Amir. “Sento che qualcosa sta cambiando, lo sento nel calore delle persone intorno a me, nell’attenzione mediatica, ma dobbiamo resistere ancora”.