Autori che si trasformano: Yorgos Lanthimos. Che cosa c’entra l’applauditissimo Poor Things (in italiano sarà Povere creature!) con gli altri film del regista greco? Risposta facile. C’è il gusto dell’eccesso e dell’orrore, la critica e la satira sociale portate al punto di incandescenza, la facilità con cui questo blend già di per sé bizzarro vira verso il fantastico o il mitologico. Ma è uno schema che funzionava con i suoi primi film, Dogtooth, The Lobster o Il sacrificio del cervo sacro, mentre La favorita già segnava il passaggio verso qualcosa di diverso, anche se la crudeltà dei rapporti umani e soprattutto amorosi restava in primo piano, sostenuta da attori eccellenti e pronti alle prove più estreme (basti pensare alla via crucis che affrontava Olivia Colman proprio ne La favorita).
Rovesciamenti facili facili
In Poor Things ritroviamo Emma Stone e un’attenzione ostentata fino allo sfinimento per il mondo femminile e le violenze a cui sembra condannato. Solo che tutto poggia sulle spalle insieme fragili e sovradimensionate di uno steampunk da 140 minuti sorretto da una serie di rovesciamenti facili facili. Il mostro di Frankenstein non è un uomo ma una donna che non ha più niente di mostruoso come dice già il nome, Bella Baxter (appunto Emma Stone), nata dal corpo di una suicida e dal cervello del figlio che portava in grembo. Mentre il mostro, almeno esteriormente, è il suo creatore Godwin Baxter (Willem Dafoe), chirurgo dal volto deforme e ricucito perché già sottoposto a esperimenti indicibili dal padre medico vittoriano. È Godwin detto God, cioè Dio, che cresce quella deliziosa creatura con l’amore di un padre, anche se un padre molto padrone. Fino a quando la povera Emma esaurite le bizze, le rabbie e gli stupori infantili della prima parte, la più divertente, non diventa adulta a velocità record e va incontro ai mostri veri.
Che sono naturalmente i maschi, primo il seducente Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo) avvocato trombone e sedicente grande amatore, che sottrae l’innocente Bella al promesso sposo fessacchiotto McCandless (Ramy Youssef) per imbarcarla letteralmente in un lungo viaggio di formazione tra Lisbona, Alessandria e Parigi fitto di amplessi, di altri incontri e di insegnamenti, ma anche meccanico, prevedibile e di gusto non sempre sopraffino. Come l’incredibile Ottocento retrofuturista del film, reso da scenografie così brutte e da un uso così insistito del fish-eye che se non lo squalificano per abuso di colpi sotto la cintura magari arriva agli Oscar, come devono fare ormai tutti i film in concorso a Venezia.
Corpi e desideri
La parte più divertente di Poor Things, accolta con risate e applausi come del resto tutto il film in Sala Grande, è il progressivo e ineluttabile capovolgimento di ruoli che si verifica in viaggio. Con Emma Stone sempre più cosciente del proprio corpo, dei propri desideri, della propria dignità, ma anche libera e sfrenata come la bambina che ancora è, dunque capace di demolire la corazza del viveur fino a farne uno schiavo tremante e furibondo. Emma Stone e Mark Ruffalo del resto sono straordinari e le loro scene da sole varrebbero il film, pensiamo su tutte a quella specie di “antologia del ballo nei secoli” riveduta e corretta dalla follia dei personaggi in cui si producono durante una festa.
Purtroppo però a questa prima parte ne segue una seconda pesante, didattica, soprattutto terribilmente scontata in cui la concupitissima e disponibile Bella inizia a prostituirsi un po’ per caso un po’ per gioco e con assoluta innocenza finisce in un bordello a Parigi dove scopre, nell’ordine, le miserie del sesso a pagamento (ma anche i tesori di conoscenza che ne derivano), l’amore con un’altra donna e gli insegnamenti del socialismo. Infine torna a Londra per affrontare il mistero delle proprie origini in un crescendo di idee magniloquenti e scontate rivestite da un femminismo non meno trito ed esteriore.
Poor Things, una celebrazione gastronomica
Che un regista impegnato per anni a demolire le nostre certezze – estetiche, morali, narrative – si sia convertito a questa chiassosa e gastronomica celebrazione dei valori più ovvi e oggi consensuali fa riflettere sul modo in cui oggi i film vengono concepiti e realizzati. Non abbiamo letto il romanzo dello scozzese Alasdair Grey su cui è basata la sceneggiatura di Tony McNamara, già autore de La favorita. Ma il risultato finale è decisamente meno brillante e ancora una volta spropositatamente lungo: 140 minuti. Chissà se dopo Venezia, come si usava una volta, Lanthimos ci rimetterà mano. Scommetteremmo di no.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma