Lo sguardo inedito di Jonathan Glazer su Auschwitz: “Era mio dovere raccontare la grottesca banalità dei nazisti”

“Erano persone ordinarie, noiose, familiari: per questo dovevo fare il film su di loro, non sulle vittime”. Così dice il regista britannico all'incontro con il pubblico della Festa del Cinema in occasione dell'anteprima italiana de La zona di interesse, già premiato a Cannes

Un muro soltanto, ne La zona di interesse, separa l’elegante casa della famiglia Höss dal campo di morte più famoso al mondo. Un muro che ostacola la vista ma che non impedisce all’orrore di attraversare lo schermo, anzi lo moltiplica attraverso i soli suoni. Jonathan Glazer rilegge così, con grande libertà, la vera storia del primo comandante nazista a capo di Auschwitz, raccontata nell’omonimo romanzo di Martin Amis.

I suoi Höss sono figure spesso lontane e inafferrabili. E non è un gesto di protezione nei confronti del pubblico, piuttosto un invito a una visione critica da parte di un regista consapevole di aver creato un ritratto fin troppo realistico della banalità del male.

“Io per primo devo credere in ciò che mostro. Devo interrogarne ogni singolo aspetto, capire cosa faccio e cercarne una logica. Devo credere che le azioni dei miei attori siano reali”. Afferma così durante la masterclass, moderata da Nico Marzano e organizzata in occasione dell’anteprima italiana del film alla Festa del Cinema di Roma, che anticipa l’uscita nelle sale, il prossimo 18 gennaio 2024.

La ricerca del vero

Confessa, Glazer, di amare in particolare le scene in cui i suoi attori faticano a trovare la chiave giusta per entrare nel personaggio. “È quando si sentono vulnerabili che mi interessano di più, in quei piccoli momenti di verità, che spesso catturo durante le prove, senza che siano consapevoli di essere filmati”.

È una tecnica di osservazione da documentario che spesso si mescola al suo cinema di finzione, portando interpreti e pubblico in attimi di pura immedesimazione in una storia. Come nel caso di Under the skin, il film del 2013 in cui Scarlett Johansson nel ruolo di un’aliena assassina convinceva veri passanti, degli sconosciuti, a salire sul suo furgoncino. “È la bellezza di fare un film letteralmente camminando, muovendosi in avanti insieme ad esso”.

La zona di interesse, tuttavia, rappresenta per Glazer sia un’evoluzione sia un cambio di passo. L’adattamento e il tema dell’Olocausto nascono da “un bisogno profondo e presente da tempo”, ma per cui il regista stava cercando una chiave inedita. “Dopo le mie ricerche ho capito che i nazisti di cui parlo erano persone così ordinarie, noiose e grottescamente familiari che era sul loro ritratto che avrei dovuto basare il film, non sulle vittime”. È su Hedwig Höss (Sandra Hüller), in particolare, che Glazer insiste maggiormente. La moglie del comandante nazista è infatti la persona che più delle altre si avvicina al muro, con indifferenza disumana, curando i suoi fiori. Ed così che l’insistenza di Glazer nel restare al di qua del muro, dentro la casa, diventa del tutto intollerabile.

Dentro e fuori la storia, a una distanza critica

“Ho creato un set a 360°, usando un vero giardino, una vera casa, un vero muro. Ho girato con luce naturale quasi l’intero film. Tutto è vero perché devo innanzitutto presentarlo come reale a me stesso. Ma anche perché devo mettere gli attori nelle condizioni di girare le scene in una sola ripresa. Ho creato un contesto in cui addentrarsi, piuttosto che tante singole scene”, prosegue il regista spiegando anche il motivo dell’uso di più macchine da presa sul set: dieci contemporaneamente. Un sistema multicamera che permette di riprendere da più angolazioni e in un movimento continuo, senza dover interrompere la recitazione.

Quel movimento è stato pensato in ogni dettaglio insieme alla protagonista Hüller, perché, “come diceva Hanna Arendt, ‘il male proviene dal fallimento del pensiero’ e finché non ti fermi non puoi davvero riflettere e capire ciò che fai”. Hedwig distrae se stessa in un “costante stato di movimento”, tenendosi occupata tra la casa e il giardino. Eliminando l’orrore che accade a pochi passi da lei. Lo spettatore la segue da lontano, la spia da una distanza che Glazer ci tiene a non definire “di sicurezza”, perché niente in questo film è fatto per essere “un pezzo da museo, guardato attraverso una teca”. È invece una distanza critica, un “Grande Fratello orwelliano sui nazisti, perché l’idea che muove il film è che lo si debba guardare senza partecipare”. E che lo si debba ascoltare, prima ancora che guardare.

Due film in uno

“Ci sono due tracce. Una è il film che senti, una è il film che vedi. L’esperienza completa è nell’intersezione tra le due, ma quello che volevo comunicare è che in questo caso le orecchie sono più importanti degli occhi”.

Le immagini, infatti, hanno la straordinaria “capacità di dare potere alle cose, a ciò che entra nell’inquadratura, più di quanto ne abbiano in realtà,”. Riquadrare la realtà non è già forse un modo per filtrarla e deformarla? Per escludere tutto quello che si trova al di là. Oltre il muro, appunto.

L’udito, invece, è l’unico dei cinque sensi che rispecchia la ricerca della verità che Glazer compie in questo film. È il rumore sordo degli spari, quello inquietante e continuo delle camere a gas e quello agghiacciante delle urla dei prigionieri. Si possono chiudere gli occhi, al cinema di fronte a qualcosa che non si vuole vedere. Non si può però davvero evitare di sentire.

“È per questo che i miei film sono invisibili. Le immagini sono solo l’impalcatura su cui costruisco un sentimento”. E ne La zona di interesse il suo sentimento è ancora più forte quando resta fuori campo.