Guglielmo Poggi, andata e ritorno dall’abisso del Circeo: “Saprò imparare dal buio che ho attraversato”

Prossimo ai 33 anni, "quelli di Cristo", l'attore veste i panni di Angelo Izzo nella serie che dal 14 novembre parte su Rai1. Una prima serata che va a chiudere un periodo di vuoti e incertezza, mentre l'attore cerca l'idea giusta per debuttare alla regia e riflette su come non finire nel "tritacarne" dell'industria. L'intervista con THR Roma

Trentatré anni, quelli di Cristo. “Sembra una banalità, ma non lo è affatto”. Per Guglielmo Poggi l’età messianica arriverà nel 2024, mentre ancora cerca di fare i conti con un ruolo che ha preparato per i passati undici anni della sua vita e che è felice di lasciarsi alle spalle. L’attore romano è al cinema dal 2012 con Viva l’Italia, mentre la regia – per cortometraggi – è arrivata prima, nel 2009.

Sono le commedie il territorio in cui si è buttato: la dramedy Beata ignoranza, l’irriverente, ma in fondo tragica Il tuttofare, la satirica Bentornato Presidente, fino alla più recente (Im)perfetti criminali. Nella serialità la stessa cosa, da Cops – Una banda di poliziotti di Sky a Luna Park di Netflix. In Circeo, invece, interpreta il “mostro” Angelo Izzo, carnefice del massacro del 1975 che vide coinvolte in un caso di tortura e stupro Donatella Colasanti – unica sopravvissuta – e Rosaria Lopez, serie uscita su Paramount + e che dal 14 novembre passerà su  Rai1 in prima serata.

“Quando vedi tutto nero finisci per credere che sia così”, confessa l’attore, che tra baratri da superare, cronaca vera e feticismo per il true crime cerca l’idea per buttarsi nella direzione di un lungometraggio, ma solo quando sentirà che è la storia giusta (come consiglia Quentin Tarantino). Magari potrà prendere spunto da Gigi Proietti, da cui ha imparato che “a far piangere sono bravi tutti, è saper far ridere la vera sfida”.

Gli occhi di Angelo Izzo. Come ha fatto a catturarne la scintilla?

È la parte tecnica del lavoro. Ti metti lì tutti i giorni, a capire da cosa viene quell’apertura, le pupille di fuori, lo sguardo allucinato. Ma soprattutto cerchi di capire il perché. Perché apre gli occhi in quel modo. È la maniera di guardare il mondo? Le sue vittime? Mi sono detto che anche in quello sguardo c’è la sua natura predatoria.

Com’è stato interpretare un predatore?

Col regista Andrea Molaioli abbiamo cercato di trovare la giusta misura. Ciò che ho messo in scena è stato un lavoro di sintesi. Gli occhi di Angelo Izzo, appunto, che conosciamo in particolar modo per il processo Palaia. La sua presenza, di come viene ricordato. Poi ho unito questi elementi autentici con l’Angelo Izzo che immaginiamo, quello che non abbiamo visto commettere atrocità, ma sappiamo che le ha compiute. Ho provato a pensare che il mio appetito, al posto della fame che ho veramente, fosse il voler sottomettere la donna. Ho cercato di dare un linguaggio e un carattere poetico al personaggio, unendo studio e istinto.

Perché crede possa esserci qualcosa di poetico in questo mostro della cronaca italiana?

Assolutamente no. Nel male, semmai. Per Angelo Izzo non c’è e non ho alcuna fascinazione. Non c’è nulla da dover ammirare della sua arte manipolatoria, del suo voler uccidere prima di ogni altra cosa: torturare, malmenare, stuprare. L’obiettivo era esercitare il controllo sulla donna. E la maniera in cui Izzo sentiva di poterlo fare era ammazzare. Sul male come poesia credo abbia detto tutto Albert Camus nell’opera teatrale Caligola: “Io sono puro nel male come tu sei puro nel bene”.

Eppure è come se si fosse preparato da tutta una vita per il ruolo. Ha studiato Angelo Izzo negli ultimi undici anni.

E quando poi ci sono stato dentro, a un certo punto, non volevo più farlo. Un giorno sono arrivato sul set di Circeo, mi sono guardato intorno e ho pensato: non voglio stare qui. Voglio andarmene. Ho sempre avuto un certo interesse per il true crime, da qui il mio preparami da metà della mia vita per il ruolo. Ma finché non lo vivi, non sai quanto quei pensieri oscuri, neri, possano avvelenare la tua mente. Non sono un attore che si porta a cena il personaggio, non mi ritrovo nel metodo dell’Actor’s Studio, ma quando alcuni tic o alcune idee balenavano nella mia mente ho cominciato a preoccuparmi e a rendermi conto che dovevo staccarmi.

Dubito che sia entrato in empatia con il ruolo.

Come avrei potuto? È impossibile. Mi rendo conto che è un personaggio complesso, stratificato. Ma parliamo pur sempre di un uomo che quando esce dal carcere va ad uccidere altre due donne. Trovo però che sia giusto che si continui a parlare della strage del Circeo, non per Izzo, bensì per restituire dignità e giustizia alle vittime, così che non vengano dimenticate e ricordare che, nel dramma, quell’evento portò a una legge sullo stupro che non riguardava più l’offesa alla morale, ma alla persona.

Non c’è il rischio di diventare morbosi a furia di serie, film o podcast sul true crime?

Credo lo disse Izzo stesso quando uscì La scuola cattolica di Stefano Mordini. Non capiva quale potesse essere l’interesse del pubblico per quella storia di cui fu uno degli aguzzini. Ma ben vengano i true crime se ci fanno ragionare sui perché di tali azioni. Poterle studiare e analizzare, per capire come prevenirle. Penso sarebbe utile una versione su Angelo Izzo alla Dahmer, la miniserie Netflix. Non per rimanere intrigati dal personaggio, ma capire cosa lo ha spinto ad agire in quel modo. C’è una scena in cui il cannibale di Milwaukee chiede: perché sono così? È su questo che dovremmo soffermarci.

In Italia saremmo capaci di creare un prodotto come Dahmer?

Probabilmente no. C’è un retaggio troppo cattolico e borghese che ci porta a mettere il vestito buono e nascondere il male sotto al tappeto.

Quindi, almeno per Guglielmo Poggi, niente serial killer nel prossimo futuro?

Non voglio rientrarci, non prossimamente. Mi ero abituato a vedere tutto nero. Se per mesi non mangi, ti alleni con la voce, guardi video in continuazione per dare verità al personaggio finisce che ne rimani intrappolato. Gli esseri umani sono animali metamorfici. Abbiamo adottato delle tecniche per adattarci e quando ti avvicini a mondi molto più cupi, se non hai gli strumenti giusti, rischi di rimanerci dentro. Tutto quel soggiogare, ingannare, attirare le persone in maniera manipolatoria magari con un sorriso o un gesto. Ci ho messo un po’ a staccarmelo di dosso.

Non ha avuto un supporto psicologico durante le riprese?

No ed è stata una mia ingenuità. Se vai a toccare certe corde è probabile che finiscano per danneggiarti. Pensavo di poter tenere tutto sulle mie spalle, invece mi sono accorto che non era così. Fortunatamente ho vicino persone che hanno saputo tirarmi su meravigliosamente. Hanno saputo rimettermi sui binari, ma ho imparato che se ti butti completamente in qualcosa non ne puoi uscire da un momento all’altro. Complice anche eventi molto duri che sono arrivati nella mia vita l’anno successivo, abbastanza disastroso. Credo che non sia casuale che Circeo arrivi proprio ora sulla Rai. È un po’ come chiudere un cerchio. Non so neanche se lo vedrò, ma sento che potrò salutare Angelo Izzo definitivamente.

Si sente ancora perso?

Spaesato. Vuoi qualcosa a tutti i costi, la cerchi, la trovi, sei anche soddisfatto, ma ti senti al contempo a un passo dal baratro. Sono sicuro che, tra qualche anno, mi volterò indietro e mi renderò conto che questo momentaneo vuoto faceva parte di un percorso più grande. E ripenserò che hanno voluto proprio me per un rappresentare il male. Un attore che fino ad ora ha fatto per la maggior parte commedie. È un segnale grande, solitamente chiamano attori come Pierfrancesco Favino o Gabriel Montesi per questi ruoli, di talento e sulla cresta dell’onda.

Pronto per una rinascita?

Va bene che compirò presto 33 anni, li stessi di Cristo, però mi limito a sperare in una ripartenza. Sono stato prematuro in tutto nella mia vita, e ora che sto veramente crescendo ho una paura fottuta. Vedo tutto in salita. Nonostante sia una persona che ha avuto sempre tutto, mi cago sotto in continuazione.

Anche nel lavoro?

Anche, e mi rendo comunque conto di essere tra i viziati. Per me non è mai stato un problema lavorare. Quando non mi chiamavano gli altri, mi producevo da me. Ho il teatro per questo. C’è stata La strada di Cormac McCarthy, lo spettacolo su Caligola, i concerti. Il problema è che vedo tanto distacco col pubblico. Siamo entrati in un circolo strano, dove ho il timore che un progetto interessi solo a me e non trovi poi riscontro nelle persone. Prendiamo i dati sul film di Paola Cortellesi, C’è ancora domani. Da una parte sono incoraggianti, ma dall’altra dovrebbero farci rendere conto che al pubblico non è stata messa una catena che li tiene incollati alla poltrona di casa. Se vogliono alzarsi e uscire possono farlo. E lo fanno perché lo vogliono.

Cecità dell’industria?

Siamo chiusi su noi stessi. Sui premi, su quanti ne vinciamo, su cosa pensano i nostri colleghi, ma mai della persona che, dopo una settimana di lavoro a 1000 euro al mese, vuole andare al cinema. Spesso ci si dimentica che questo mestiere lo facciamo per loro. È un sistema che mi spaventa. Prima c’erano i grandi talenti, gli intellettuali. Dalla letteratura, con Ennio Flaiano, al cinema, con Vittorio Gassman. Ci si sedeva al tavolo, si mangiavano le bruschette, il piatto con le telline, si ragionava su cosa offrire al pubblico. Oggi siamo immersi in un tritacarne. Pubblico compreso. Non è che io il 33esimo canto dell’Inferno di Dante me lo ricordo per qualche motivo, ma perché per tanto tempo ho pensato solo a quello e l’ho trovato memorabile.

Manca solo il tempo o anche la creatività?

Forse mancano addirittura i divi. Abbiamo Cortellesi, Favino. Poi? Che anche qui non saranno mai le stelle del passato. Il divismo dovrebbe prescindere dai red carpet e dai servizi fotografici. Ma è solo un’altra delle tante cose di cui ho paura. Come il fatto che le persone, in questo settore, trovano sempre tutto bello. Poi guardi un film o una serie e, obiettivamente, ti hanno consigliato un prodotto mediocre. Alla fine non ti fidi più. Io sono il primo a imbarazzarmi ancora per almeno tre o quattro delle mie interpretazioni. Invece ciò che sarebbero davvero da ricordare finisce in secondo piano. Penso a Gigi Proietti, è morto nel 2020 e dopo la commemorazione al Globe è come se lo avessimo già dimenticato.

Potrebbe farsi venire in mente lei un film su Gigi Proietti. È regista, anche se per ora ha diretto solo cortometraggi.

Intanto c’è il bellissimo documentario di Edoardo Leo, Luigi Proietti detto Gigi. È stato bravissimo a rappresentarne la grandezza. Poi non sono ancora pronto. Ho delle idee, ma in Italia se da attore passi a regista rischi di confondere le acque e non riescono più a definirti.

Quindi nessuna regia a breve?

C’è una frase di Tarantino che non ricordo mai bene, ma che in sostanza dice che finché non ti vergogni al punto di un’idea per quanto è intima, allora non vale la pena realizzarla.

Tra l’altro è come se tutto tornasse, perché il suo ultimo corto Next One ha al centro come tema le molestie. È come se ci fosse un filo con Circeo.

Credo di aver sviluppato una certa sensibilità sull’argomento. E il motivo è che sono stato molto disastrato in passato. Next One è ispirato a mia madre, ai suoi racconti. È un’attrice, era bellissima da giovane e entrare nel mondo dello spettacolo negli anni ottanta poteva essere un incubo. Mi sono reso conto che, senza un’educazione, la società continuerà a mettere in pratica dei meccanismi malsani. Io provo a migliorarmi anche tramite le storie, interrogandomi e parlando con chi certe esperienze le ha vissute. Basta che un film poi non diventi una seduta di psicoterapia.