Monkey Man, esordio spettacolare di Dev Patel (con la benedizione di Jordan Peele). Storia della scimmia che voleva sconfiggere il leone

Dopo l'acclamato debutto al festival SXSW, il film - che il regista-produttore di Get Out ha acquistato da Netflix per destinarlo alla sala cinematografica - arriva nelle sale italiane dal 4 aprile: un corsa all'impazzata tra lotta al cambiamento climatico, auto-determinazione dei popoli, diritti per la comunità queer ed iconico viaggio dell’eroe. Il tutto, però, in salsa indiana

Partiamo dal presupposto che ogni gusto è soggettivo e che se a qualcuno piace qualcosa non è detto che debba poi avere lo stesso effetto su tutti. Consideriamo allo stesso modo che, però, una cosa piaccia a qualcuno come, che so, Jordan Peele, e che gli piaccia al punto da prendersene carico fino a farlo arrivare direttamente nelle sale cinematografiche. Il gusto, lo ripetiamo, è soggettivo e soggettivo rimane. Ma anche che se il padre di Get Out, Noi e Nope ha visto qualcosa in un film, allora forse quel film qualcosa lo ha per davvero.

È accaduto con Monkey Man, debutto alla regia e alla sceneggiatura – scritta a più mani, con Paul Angunawela e John Collee – di Dev Patel, protagonista e ideatore della storia, in anteprima mondiale al SXSW. Lo stesso Dev Patel che nel 2008 debuttava al cinema nel film premio Oscar The Millionaire di Danny Boyle e che arrivava dal 2007 sulla scia della serie generazionale britannica Skin.

Una scena di Monkey Man

Una scena di Monkey Man

Sebbene Patel (La vita straordinaria di David Copperfield, Sir Gawain e il Cavaliere Verde) bazzichi per l’industria seriale e cinematografica da anni, la vera sorpresa è constatare la giovanissima età del talento, nel 2024 appena trentaquattrenne. Insieme alla presunzione di realizzare una prima opera enorme come il panorama di un cinema indiano sconfinato, e che per il suo debutto dietro l’obiettivo ha deciso di racchiudere nelle tipiche dinamiche hollywoodiane, senza sottrarne però l’individualità culturale.

Affondare le radici

Le radici, fondamentali nel film – che diventano grosse, forti e robuste, affondando nelle profondità della terra – sono salde nella pellicola, perfetto connubio tra cinema identitario e cinema d’intrattenimento. Con una consapevolezza inattesa e squilibrata della camera da presa, i cui movimenti frenetici, confusi, parziali e sporchi sono parte dello stile inaspettato ed esaltante della messinscena. Un debutto davvero troppo grande per un novellino. Di una sfrontatezza unica, come forse tutti gli esordi dovrebbero essere.

Monkey Man

Commento breve Spettacolare
Data di uscita: 04/04/2024
Cast: Dev Patel, Sobhita Dhulipala, Sikandar Kher, Pitobash, Makarand Deshpande, Ashwini Kalsekar
Regista: Dev Patel
Sceneggiatori: Dev Patel, Paul Angunawela, John Collee
Durata: 113 min

Non per niente Dev Patel interpreta Kid, uomo non del popolo, ma addirittura della foresta. Un personaggio dal passato traumatico e mosso da desideri di vendetta, sradicato fin dall’infanzia dalla sua casa, data alle fiamme in quanto “luogo sacro” e destinata alla santa-fabbrica di un’India corrotta e industriale. Un ragazzino che diventa un adulto “destinato a sfidare gli dei”, proprio come il protagonista della storia che sua madre gli raccontava da piccolo.

Mangiare il sole, come nel racconto per bambini (uno dei tanti richiami alle pagine della tradizione indiana), è insieme peccato e fonte di ispirazione per un uomo che incanalerà la rabbia contro le fondamenta di un intero sistema politico, aziendale e religioso. La scimmia che sfida il leone nazionale. L’uomo comune contro il potere e lo Stato.

Tanto sangue, tanto spettacolo

Sebbene le intenzioni di Patel, della sua trama soprattutto, sono troppo espanse e troppo ingombranti per trovare un autentico sbocco, Monkey Man non si pone limiti mischiando lotta al cambiamento climatico, riappropriazione e auto-determinazione dei popoli, visibilità e diritti per la comunità queer e tipico, semplice, essenziale viaggio dell’eroe, tutto compresso in un solo film.

Difficilissimo da spiegare, probabilmente (fa ridere pensare a Dev Patel che prova a pitchare l’opera), ma che scivola via con la facilità e la chiarezza dei rivoli di sangue che fin da subito sgorgano dal corpo del protagonista – in fondo, si sa, per il sangue si guadagna sempre “un extra”.

E mentre la caoticità del racconto si prende il tempo necessario per riportare ogni tassello al proprio posto, il cinema si fa spettacolo. Diventa una staffetta a perdifiato per le strade di una città labirintica.

Sono le maestranze che portano un aereo nei cieli dell’immaginaria città indiana di Yatana (in verità, il film, è stato girato in Indonesia), con inquadrature degne dei migliori action, mentre il secondo dopo sequenze prese quasi dal reale si alternano in un affresco in cui ogni cosa è scompigliata, disordinata, polverosa. Sudata, in particolar modo. È un mix di generi Monkey Man. Sembra tutto il cinema che può piacere a Dev Patel.

Dev Patel in Monkey Man

Dev Patel in Monkey Man

Da Rocky a The Raid – Redenzione, dall’eccesso di RRR ai momenti pseudo-horror del Suspiria di Luca Guadagnino, passando per l’accerchiamento stile 88 folli di Kill Bill – Vol. 1 intorno al protagonista fino a “Tu l’hai visto John Wick?”, come se non fosse abbastanza esplicito il riferimento primario.

E, perché no, c’è anche la lotta nel bagno di Mission Impossibile: Fallout e la sequenza delle scale tra la serie di Daredevil e il film d’azione Atomica bionda. Ci sono i fumetti, c’è Shiva, c’è anche una scena in cui Kid cerca di buttarsi da una finestra non riuscendo a romperla e cadendo sul pavimento.

Monkey Man: dalla musica al montaggio, un vero spettacolo cinematografico

Il film è un insieme di contrasti, di sfumature. Di una colonna sonora spettacolare – sostituita da Jed Kurzel dopo essere stata realizzata in precedenza da Volker Bertelmann – che amplifica i continui attriti che incollano una scena dopo l’altra. Prima sparando ad alto volume, poi abbassandosi. Riprendendo un secondo dopo con veemenza, quell’altro ancora non abbinandosi minimamente a ciò che si sta vedendo e, proprio per questo, creando un effetto dissociativo febbricitante.

Per non parlare del momento in cui l’allenamento e la musica si fondono, in cui le note danno ritmo ai movimenti del protagonista. O delle sequenze palesemente in crescendo, con il montaggio – di Dávid Jancsó e Tim Murrell – che decide di interromperle improvvisamente, depotenziandole del tutto.

E quindi sì, il gusto è soggettivo, il cinema è soggettivo, tutto è soggettivo. Ma se Jordan Peele acquista da Netflix con la sua Monkeypaw Productions il film di Patel per dare visibilità ad un simile esordio, allora forse un po’, almeno un po’, ci si può fidare. Come di un cinema che tenta di oltrepassare ogni possibilità.