L’alfiere Jordan Peele e la sua Monkeypaw Production, l’avventurosa fucina dello sperimentalismo che sfida il canone hollywoodiano

Da Scappa - Get Out fino al debutto di Dev Patel dietro la macchina da presa: viaggio nei meandri dello Studio che nella Mecca del cinema sostiene le realtà più folli e coraggiose (e politiche) del cinema di genere. E che finora non ha sbagliato un colpo. "Ciò che mi affascina è l’elemento magico. La magia dell’horror è la magia del caso”

La zampa mozzata di una scimmia che muove un cucchiaio dentro una tazza di tè (la tazza di tè di Scappa – Get Out, si intende): Monkeypaw Production si riconosce immediatamente già solo dal suo logo animato, il cosiddetto vanity plate, come accade per i più grandi e storici Studios hollywoodiani.

È un’immagine inquietante e complessa che ha una sua “storia”, una sua identità e un suo messaggio. E ha la stessa potenza immaginifica dei film sotto la sua firma. Questo Jordan Peele lo sa bene e lo ricorda sempre ogni volta che spiega il senso e la scelta del nome della sua casa di produzione,  fondata nel 2012.

Monkeypaw di Jordan Peele, il significato

Monkeypaw Productions deriva dall’omonimo racconto horror La zampa di scimmia di William Wymark Jacobs, una breve opera del 1902 in cui la zampa mozzata dell’animale, da amuleto portafortuna, diventa un oggetto maledetto che garantisce tre desideri a un prezzo insopportabile per l’essere umano, colpevole di aver interferito con il destino. La particolarità è che il racconto si interrompe prima di svelare la sorte dei protagonisti, lasciando il lettore nell’angoscia del vuoto, del “non sapere” cosa accade dopo.

Il logo animato (o variety plate) di Monkeypaw Production

Il logo animato (o variety plate) di Monkeypaw Production

È la sensazione che Peele, nelle interviste, spesso riconduce alla sua stessa esperienza nell’industria hollywoodiana. Un mondo in cui si può trovare tanto la fortuna quanto la disperazione: “Ciò che mi affascina è l’elemento magico. La magia dell’horror è la magia del caso”, ha affermato in passato.

Dal 2012 al 2024, l’attività di Monkeypaw

Proprio come la porta chiusa del racconto di Jacobs, oltre la quale i protagonisti non sanno se troveranno qualcosa che li salva o che li distrugge, il caso a cui si riferisce Peele va inteso come il destino, il fato. Le storie che racconta sono, al contrario, costruite e strutturate in ogni dettaglio e su strati di diversi significati. Due di queste, Scappa – Get Out (esordio alla regia dello stesso Peele) e BlacKkKlansman di Spike Lee sono anche premi Oscar per la sceneggiatura in due anni consecutivi.

Fino a oggi Jordan Peele tramite Monkeypaw Production ha prodotto 9 lungometraggi e ne ha annunciati ulteriori due, tra cui il suo quarto film da regista. Ne sta sviluppando altri tre, di cui ancora si conosce solo il titolo. Oltre ai già citati e ai suoi stessi lavori (Noi, Nope) quelli più degni di nota sono Candyman di Nia DaCosta e Wendell & Wild di Henry Selick (sì, quello di Nightmare Before Christmas. Il film, animazione in stop motion, è su Netflix). E ora, nel 2024, “infrange” un canone autoimposto, ma non rigido, andando al di là dell’horror con Monkey Man di Dev Patel.

Una scena di Wendell &Wild (con le voci di Key & Peele)

Una scena di Wendell & Wild (con le voci di Key & Peele). Courtesy of Netflix

In televisione, invece, la commedia è stata il primo e principale motore di Monkeypaw, dietro il successo dello sketch-show Key & Peele (2012-2015), a cui hanno fatto seguito altre sei serie, con una settima in arrivo per Prime Video. Tra le più celebri, senza dubbio, The Twilight Zone (2019- 2020) e Lovecraft Country (2020).

Dall’orrore lovecraftiano all’action puro, i mille volti di Monkeypaw

C’è una forte dichiarazione di intenti che Jordan Peele ha fatto ai tempi dell’uscita di Nope (2021), ossia che in nessuno dei suoi film avrebbe mai scelto un protagonista bianco. Non è quello che gli interessa raccontare, aveva affermato, ed è rimasto fedele alle sue parole. È una promessa che mantiene infatti anche attraverso i film e le serie che produce. Opere molto diverse tra loro ma accomunate prima di tutto dal racconto di un’esperienza “altra”, fuori dal canone e dalla norma di Hollywood. Quella che una volta si diceva Wasp (White, Anglo-Saxon, Protestant) e oggi si direbbe cis-etero, due facce dello stesso dominio tematico e sociale.

Quando si parla di Jordan Peele, inoltre, non si può ignorare come il suo primo amore, la commedia, riesca a entrare in modi sotterranei e sorprendenti in ogni titolo che porta il suo nome, sia da regista che da produttore. Si declina in umorismo tagliente, in slapstick inaspettata o in ironia sottile e nascosta dietro specifici riferimenti culturali. Tuttavia è (quasi) sempre presente.

L’orrore lovecraftiano

Volendo scegliere tre titoli rappresentativi della filmografia prodotta da Monkeypaw fuori dai suoi tre da regista, il primo è senza dubbio Lovecraft Country. I dieci episodi ideati da Misha Green per Hbo sono un concentrato di cultura afroamericana (con una breve parentesi nella tradizione coreana e nativoamericana), così denso da dividersi nettamente per due tipi di pubblico molto distanti.

Jonathan Majors e Jurnee Smollett in una scena di Lovecraft Country

Jonathan Majors e Jurnee Smollett in una scena di Lovecraft Country. Courtesy of HBO

Il primo è quello che sa riconoscere un’inquadratura ispirata alle grandi fotografie di Gordon Parks, conosce il massacro di Tulsa e le leggi Jim Crow, il nome e la storia di Emmett Till e l’Afroturismo, il voodoo e la Santeria. Il secondo è quello che, pur ignorando il contesto di riferimento, si ritrova ugualmente trascinato nel “cosmicismo lovecraftiano” e in una generale sensazione di impotenza che si declina in dieci incubi diversi, dieci esempi di horror, uno per episodio. Dai mostruosi Shoggoth ai demoni e ai fantasmi, fino allo slasher e allo splatter più comuni, uniti da una storia orizzontale e da una missione da portare al termine.

La riappropriazione della narrazione

Nia DaCosta, di recente protagonista dello sfortunato flop The Marvels, nel 2021 con Candyman era riuscita in un’impresa non da poco. Attraversando lo specchio dell’inquietante demone che dà il titolo al film – che si evoca ripetendo il suo nome cinque volte di fronte alla propria immagine riflessa – aveva ribaltato la prospettiva stereotipata di uno dei cult horror degli anni Novanta. Il Candyman originale, infatti, era una metafora dell’uomo nero violento che con la forza si impossessa del corpo e della vita di una donna bianca.

Una scena di Candyman (2021), regia di Nia DaCosta

Una scena di Candyman (2021), regia di Nia DaCosta. Courtesy of Monkeypaw Productions/Universal Pictires

Il nuovo demone, pur rimanendo un assassino, combatte invece la gentrificazione, il razzismo e l’ipocrisia della società. Nel suo modo di rappresentare il vero orrore dentro lo specchio e nella scelta di intrecciare l’attualità con la promozione del film, usando come tagline lo slogan di Black Lives Matter (Say His Name), Candyman è uno dei manifesti politici più forti della Monkeypaw, superato, forse, soltanto dagli inarrivabili Get Out e BlacKkKlansman. È ciò che si intende quando si dice che Jordan Peele ha aperto una nuova strada all’horror politico, non solo black.

Il revenge movie per cui “nessuno era pronto”

In un recente dialogo fra Jordan Peele e Dev Patel per Rotten Tomatoes, Peele descrive Monkey Man come un film perfetto per il pubblico di Monkeypaw, proprio perché nessuno se lo aspetterebbe. Nel momento in cui lo Studio ha raggiunto una certa popolarità e una certa carica di aspettativa arriva un titolo che, continua Peele, “non dovrebbe nemmeno essere nel catalogo e, per questo invece, merita di starci”. Il ragionamento, un po’ contorto, è in realtà coerente, perché lo scopo di Peele è sempre stato quello di abbattere gli schemi e le convenzioni del cinema di genere. Nel momento in cui è la sua stessa casa di produzione a crearne di nuovi, è giusto anche che li abbatta dall’interno.

Dev Patel in Monkey Man

Dev Patel in Monkey Man

Monkey Man, esordio alla regia di Patel, dunque, non è un horror. Attingendo nel profondo alla cultura indiana, anche cinematografica, è un mix di generi dal thriller al film d’azione, dal gangster ai film di arti marziali. Lunghissimi e sanguinosissimi combattimenti corpo a corpo riportano il film d’azione alle sue basi più cruente e (pseudo)realistiche. Nel frattempo costruiscono, come d’obbligo nella scuderia di Peele, un discorso sociale che, pur rimanendo sullo sfondo, anima, spinge e motiva le azioni del protagonista-regista.

Monkey Man chiude, quindi, un cerchio e ne apre uno nuovo, in attesa di ciò che la zampa di scimmia riserverà in futuro, dietro la porta chiusa.