Elliot Page: “I nostri corpi sono sempre stati politicizzati, ma siamo in un periodo spaventoso”

L'attore canadese si racconta nel libro Pageboy, in Italia edito da Mondadori e uscito il 6 giugno. "Non avrei mai potuto scriverlo prima di fare coming out"

Nel capitolo iniziale di Pageboy, il libro autobiografico di Elliot Page (edito in Italia da Mondadori), l’attore racconta della sua prima volta in un bar gay. Aveva 20 anni; era l’estate precedente alla première di Juno, il film del 2007 di Jason Reitman, ovvero circa un decennio e mezzo prima che facesse coming out come persona trans.

“La vergogna mi era stata conficcata nelle ossa fin da quando ero piccolissimo – scrive Page – e lottavo per liberare il mio corpo da quel vecchio midollo tossico ed erosivo”. “Ma c’era una gioia nella sala, che mi sollevò – aggiunge – che mi costrinse un sorriso incontrollato e costante”. Page non avrebbe mai immaginato di scrivere un libro, ma quando l’opportunità (e la fiducia in se stesso) sono arrivate, le parole hanno seguito.

In un intervista a The Hollywood Reporter su Zoom – qualche settimana prima dell’uscita del libro – l’attore ha dichiarato di avere “questa nuova capacità di stare seduto con me stesso e creare cose”. E aggiunge: “Non avrei mai potuto scriverlo prima di fare coming out”.

Il libro di memorie ripercorre i momenti cruciali della vita dell’attore, dall’infanzia (in Nuova Scozia), al successo e al tumulto di Hollywood, fino al suo coming out come gay, e poi trans, sulla scena pubblica. “Come puoi vedere, sono un po’ nervoso”, dice ridendo.

“Ma è emozionante e importante che le persone si riconoscano in alcuni elementi del mio percorso. Mi sto rendendo conto che forse le persone leggeranno questo libro”. Page descrive come è stato raccontare la sua storia con parole sue e cosa ha imparato dopo che il team creativo di Flatliners gli ha fatto pressione per fargli fare uno stunt pericoloso.

Intervista a Elliot Page

Puoi parlare un po’ della tua decisione di scrivere un libro. Perché un libro e perché ora?

In passato l’idea di scrivere un libro mi è venuta in mente e l’ho accantonata dicendo: “No, non credo sia il momento giusto”. Ma soprattutto non pensavo che fosse possibile per me. Mi è capitato spesso di guardare un libro e pensare: “Non capisco come si possa riuscire a fare una cosa del genere”. Ma ho incontrato i miei agenti letterari, che mi avevano incoraggiato a scrivere almeno una proposta – ricordo che dopo sono tornato nel mio appartamento, mi sono seduto e ho avuto un flusso di coscienza in cui ho scritto il primo capitolo, “Paula”. La versione finale del libro non è molto diversa da quella che è uscita. Sembrava che non riuscissi più a fermarmi.

Scrivi apertamente del modo in cui il coming out ha incrinato, per un certo periodo, il rapporto con tua madre. È stata una decisione difficile?

Ho sicuramente preso diverse decisioni su quanto raccontare della mia vita personale. Il percorso con mia madre mi è sembrato importante da condividere perché molte persone queer e trans hanno un’esperienza simile e spero che parlarne in modo vulnerabile e onesto possa aiutarle a sentirsi comprese o a dimostrare che è possibile cambiare. Scrivere questi momenti ha solo aiutato me e mia madre ad avvicinarci.

Le hai fatto leggere una prima copia?

Non ha letto tutto il libro, perché ci sono dei momenti in cui dico: “Mamma, forse è meglio che tu non lo legga” (ride). Ma la prima cosa che ho condiviso con lei è stato il capitolo su “Paula” e la sua reazione è stata quella di commuoversi, poi si è seduta e ha detto: “Le tue parole sembrano musica”. È stato dolcissimo e lei è stata molto gentile. Parlare con lei prima di scrivere sul suo personaggio mi ha aiutato a scoprire molte cose sulla sua vita e sulle cose che ha passato che non credo avrei saputo altrimenti.

C’era qualcun altro che volevi assicurarti fosse d’accordo con quello che è stato scritto nel libro? Ho notato che hai fatto i nomi di alcune persone ma hai lasciato anonime altre

Ho scritto di Ryan, il mio ex, e di tutta la storia della nostra rottura. Ci eravamo già riavvicinati in parte, e ora siamo amici. Ma quel processo ci ha avvicinati molto. Abbiamo avuto modo di parlare di quell’esperienza e, ripensandoci, sono riuscito a riconoscere il mio comportamento piuttosto che arrabbiarmi e fare il moralista.

Questa è una parte davvero umiliante della scrittura del libro: riflettere sul mio ruolo nelle cose. È stato un processo di guarigione e per questo gliene sono grato. Spero che le persone che lo leggeranno percepiscano il livello di onestà e di apertura che volevo trasmettere. Ho pensato a cosa c’è nella nostra cultura che ci impedisce di condividere queste cose. Spero che questa domanda susciti l’interesse delle persone.

Quando descrivi l’incapacità della nostra cultura di discutere di argomenti vulnerabili, pensi che sia un problema esclusivamente americano o che sia altrettanto grave nella cultura canadese?

È una domanda fantastica e non credo che la situazione sia molto diversa in Canada. 

Penso spesso al libro di Rebecca Solnit, The Mother of All Questions (La madre di tutte le domande), in cui si chiede quali storie non si raccontano e perché non si raccontano.

Le brutte esperienze sul set

Hai scritto di alcune brutte esperienze che hai avuto sul set, sia che si trattasse di disagio per il modo in cui gli uomini influenti ti trattavano, sia che fossi costretto a fare stunt pericolosi durante Flatliners: pensi che oggi gli attori abbiano più autonomia? Le cose sono migliorate sul set?

Non so quanto sia diverso. È una questione di potere. Sul set in cui lavoro, Umbrella Academy, mi trovo in una posizione in cui probabilmente le persone non cercheranno di fregarmi. È una posizione che mi permette di evitare di dover sopportare qualsiasi cosa.

Tutto questo non significa che il problema sia scomparso, ovviamente, ma solo che per me è scomparso perché mi trovo in una situazione diversa nella mia carriera. Ovviamente non dovrebbe essere così, tutti dovrebbero essere trattati con la stessa dignità, lo stesso rispetto e la stessa attenzione sui set cinematografici, soprattutto se si è giovani. So che mi sento sempre protettivo quando sul set ci sono dei ragazzi, mi interrogo sulla loro esperienza e voglio che non si sentano sfruttati.

Pensi che le nuove generazioni siano più istruite sulla conoscenza dei loro diritti e dei loro limiti, e che siano in grado di far valere il loro potere? Penso a Melanie Lynskey che descrive il set di Yellowjackets, dove arrivava pronta a essere molto protettiva nei confronti degli attori più giovani e loro non avevano bisogno della sua protezione…

Sembra che le persone imparino a conoscere questo aspetto in età più giovane, ma non si può mai sapere cosa sta succedendo a qualcuno. Sono sicuro che quando stavo girando Hard Candy a 17 anni sembravo relativamente sicuro di me e in grado di controllare la situazione, e che agli altri sembrasse che avessi avuto una buona esperienza. È così insidioso che non si può mai sapere.

Quale pensi sia stato il punto di svolta per te, in cui sei riuscito a sentirti più padrone e autonomo sul set?

Beh, ho avuto molte situazioni terribili. Certo, si trattava di comportamenti che non credo sarebbero permessi oggi. Ho avuto esperienze con persone tossiche e violente, che facevano cose proprio alla luce del sole, sotto gli occhi di tutti. E poi dici qualcosa al riguardo e finisci per essere tu a essere rimproverato. Forse è una cosa che mi viene in mente perché ne ho scritto, ma credo che il periodo in cui ho girato Flatliners (2017) sia stato probabilmente l’ultimo in cui ho pensato: “Assolutamente no”.

“Questa è solo la mia storia”

In che modo l’attuale ondata di leggi anti-trans cambia la posta in gioco per la pubblicazione di questo libro?

È un tempismo interessante. Le nostre vite e i nostri corpi sono sempre stati politicizzati, ma siamo in un periodo molto più spaventoso. È importante per me dire che questa è solo la mia storia. Non rappresento la maggior parte dell’esperienza trans – ho privilegi, risorse e accesso all’assistenza sanitaria. E anche con questo, quello che ho passato non è affatto facile.

Il tuo cane, Mo, è al centro dell’attenzione per alcuni capitoli: parteciperà al tour del tuo libro?

Verrà durante il tour in Nord America, perché credo che alla fine di alcuni di questi giorni avrò bisogno di coccolarlo. È una palla d’amore e io sono la persona più fortunata. Non so cosa farei senza di lui.

Traduzione di Pietro Cecioni