Zerocalcare: “Sogno un film al cinema da regista e sto bene. Anzi no, medio”

Un giorno prima dell'uscita in tutto il mondo, per Netflix, della nuova serie, THR Roma parla in esclusiva con il fumettista più venduto e amato d'Italia. Tranne che da se stesso.

Entrare nella casa di Zerocalcare è come trovarsi nella cameretta di Peter Parker. Se, come chi scrive, lo leggi da sempre – Zerocalcare, ma pure l’Uomo Ragno – sai già come e dove muoverti, dove troverai una coppetta di plastica in cui deve esserci stato, qualche giorno prima, del tiramisù, dove troverai più disordine, dove vorresti buttarti a giocare il videogioco arcade che ha poco oltre l’ingresso. Allo stesso tempo, pensi (e hai paura) che potresti entrare in una sua storia, che lui ti renderà un animale antropomorfo in una delle sue strisce o ti leggerà dentro e restituirà al mondo tutte le tue fragilità. “I miei amici, a volte, quando si rileggono per qualche giorno non mi parlano. E comunque io sto molto attento, non sai quanto materiale narrativo avrei, ottimo, che non uso per proteggerli”.

Sorride, come in una delle più belle scene di Questo mondo non mi renderà cattivo, in cui con la sua poesia spiazzante, dolce e impietosa nel mettere a nudo i sentimenti, racconta come a una certa generazione è concesso il lusso del dolore che ti macera e del divertimento che ti squassa, ma quasi mai della serenità che ti accarezza. Difficile raccontare questa nuova serie che lo vede di nuovo lavorare per Netflix (e che ha al doppiaggio ancora Mastandrea che dà voce all’Armadillo e un altro grande attore, già cardinale, per un personaggio secondario): la trama racconta l’intrecciarsi della storia di Cesare, amico d’infanzia di Zero e perso nelle tortuose strade della vita per vent’anni, che torna con il suo carico di dolore che si intreccia a quello di un quartiere diviso tra chi vuole accogliere gli immigrati in un Centro d’accoglienza e chi li vuole cacciare. Tra chi si impegna per un mondo migliore e i nazisti (“ormai in Italia” – dice il personaggio nella serie “usare la parola fascismo è normale, non crea l’allarme che dovrebbe, il nazismo è l’unico fantasma che ancora fa paura”).

In realtà, come sempre, è la commovente, divertente, (in)dolente discesa all’inferno di una generazione e di una società che gioca sempre tra la farsa e la tragedia. E di chi per sopravvivere va avanti, disimparando a guardarsi indietro. Ed è, infine, sarà evidente dal 9 giugno su Netflix per tutti, l’emersione del senso di colpa che tutti dovremmo avere. Verso noi stessi, il mondo e chi “tiene il passo più lento”.

Posso permettermi? A me sembra che questo mondo, cattivissimo lui, ti abbia reso più buono. È la solita storia, che in questa serie espliciti, dell’autosabotaggio?

Questo mondo non mi renderà cattivo, oltre a essere il titolo della canzone, è anche e soprattutto uno sguardo su una società che è abbastanza impicciata. Non sono così arrogante da attribuirmi questa frase, peraltro potrei serenamente esserlo diventato per molte cose cattivo, penso solo che tutto il contesto intorno a me, intorno a noi sia invecchiato tanto male. Poi, personalmente, se lo vuoi sapere, credo di essere ben peggiore di quando avevo 16 anni. Quindi questo mondo non lo so se mi ha reso cattivo, ma peggiore sì.

Mi vendico di anni di letture delle tue graphic novel che mi sono costate centinaia di sedute di psicoterapia, perché tu da quando hai iniziato hai prima radiografato e poi messo a nudo un’intera generazione spezzata e schiacciata dalla Storia. Mi vendico chiedendoti perché ancora adesso ti senti così in colpa di questo successo arrivato, peraltro, dopo una gavetta enorme.

Non penso di aver rubato niente a nessuno, sia chiaro. Ma è difficile convivere con l’idea che alcune delle persone con cui sei cresciuto, che hanno più talento e competenza di te, che sono più istruite, formate e sveglie di te per tante cose hanno 45 o 50 anni e si ritrovino, in questo mondo, a essere senza arte né parte. Sono le stesse persone che chiamo prima di fare un’intervista perché mi aiutino a capire cosa dirò, ma tu vieni da me, fai la cover su di me, non su di loro. E non riesco a non sentirmi l’ingranaggio di un’ingiustizia, essere riuscito a fare ciò che desideravo quando loro magari, mentre stiamo parlando io e te, stanno facendo l’inventario al supermercato. Sono uno degli attori privilegiati di questo sistema sbagliato e questo più che farmi sentire in colpa, mi fa sentire a disagio.

Ma tutto questo non è una prigione? Dorata, rassicurante, dolorosa. A volte non sarebbe meglio volare via da Rebibbia e non avere più queste corde di disagio e senso di colpa generazionale a stringerti collo e polsi? Ci pensi mai a una fuga, a 5 anni in un posto in cui nessuno ti conosce?

Non ti posso dare una risposta razionale perché non ce l’ho, nel senso che semplicemente sta fuori dal mio orizzonte cognitivo questa cosa: io so’ di Rebibbia e sto a Rebibbia, non si può discutere. Conta che per qualche mese dovrò lasciare questa casa e sto cercando un appartamento in affitto che sia comunque in questo quartiere, in queste strade e impazzisco solo all’idea di non riuscire a trovarlo. Poi lo so, razionalmente, che ci sono delle cose che avrebbero senso, per me come persona e professionista, andando altrove. Ma non si può fare.

Tocca rapirti. Eppure Netflix, come prima i festival europei e le decine di edizioni in altri paesi, dimostrano che la barzelletta di Zerocalcare che non può uscire dal Grande Raccordo Anulare ormai non ha più senso
Non esagerare. La prima stagione è andata bene, vediamo che succede con questa seconda. Ancora è prematuro affermare qualsiasi cosa, non scherziamo.

Tranquillo, il karma non ci sente. Però, ok, la prendo da un altro lato. Lo sai che Strappare lungo i bordi è stata presa così sul serio che molte delle edizioni anglofone, quella slovena e molte altre non hanno solo tradotto e doppiato la serie, ma l’hanno adattata mutuando delle realtà sociali e “geografiche” al tuo linguaggio? A te che come dici in Questo mondo non mi renderà cattivo, “lavori con le parole, è il mestiere mio”, che effetto fa questa attenzione filologica al tuo lavoro?

Ci tengo a dire che non è stata una mia richiesta, non sono come Kubrick che si studiava tutte le versioni. Anzi, sono sincero, questa cosa la sto apprendendo da te adesso, il che dimostra il mio approccio “pecione” alla questione, però me ne ero accorto in parte quando hanno tradotto i libri. Soprattutto Kobane Calling, che ha girato di più nel mondo, ha avuto tanti editori che hanno cercato di restituire lo spirito del mio lavoro e di trovare parallelismi adatti alla loro lingua e cultura: quello che era troppo italiano veniva studiato e adattato con intelligenza e con soluzioni sorprendenti anche per me che ne sono l’autore. E mi dispiace non capire di più queste sfumature, non riuscire a coglierle per l’inevitabile barriera linguistica, perché sarei bugiardo a dirti che non è gratificante.

E io che ti immaginavo immerso in notti infinite a riguardare e correggere la versione kazaka, pretendendo una perfetta filologia al linguaggio della Rebibbia di Astana…

Figurati, io non ho neanche riguardato la versione in italiano.

Neanche quella in francese? 

Neanche, pur essendo lingua madre. Ma non è una scelta di paura o snobismo, è una delle tante cose che mi sono detto: “prima o poi lo faccio”, poi non ci riesco mai.

Confessa, è la sindrome dell’impostore che ti blocca.

No, quella ce l’ho adesso, ci sto troppo dentro. Questo è il momento peggiore: non l’ho vista intera questa seconda serie, ma sono saturo delle immagini che ho creato e che ho rivisto per decine di volte a pezzi. E mi sembra che non funziona più niente, le guardo e mi dico “ma qua non ci casca nessuno, se lo fanno è perché non hanno cultura visiva”.

So che da dove veniamo noi queste cose non si fanno. Però io a volte ti vorrei abbracciare fortissimo. Comunque sappi che la mia recensione in cinque parole è “il solito capolavoro di Zerocalcare”. Però c’è una cosa che mi dà un effetto alienante del tuo lavoro per Netflix: la sensazione che tu stia ricominciando, che ti stia presentando al mondo mentre io so già tutto di te e posso dire “vedete, ve l’avevo detto!”. E tutte le immagini mi risultano nuove e allo stesso tempo familiari. A te che effetto fa?

Io l’ho approcciato, questo viaggio, pensando “adesso devo fare un riassuntone per tutte le persone (190 paesi!) di ciò che sono state le storie, la poetica, i miei temi degli ultimi dieci anni”, una specie di bignamone dei miei personaggi.

Del Zerocalcare Universe, insomma.

Non riuscirai a farmi essere arrogante, sappilo. Però è strano, hai ragione, Strappare lungo i bordi cronologicamente è parecchio indietro rispetto sia alla mia vita attuale, che a quello che è stato raccontato nei libri: nei libri Secco c’ha un figlio ormai, come nella vita vera, ma questo passaggio era inevitabile e propedeutico a raccontare delle storie un po’ più complesse. Questo mondo mi renderà cattivo è una storia che, anche se in realtà è stata scritta prima, non avrebbe funzionato senza quel “prologo”, perché le persone non conoscevano i personaggi. Una volta che tu sei entrato un po’ in quell’universo, in quel mondo, posso raccontarti anche delle cose più divisive, mettere dei personaggi che ora conosci bene in una situazione più critica, difficile.

Mi sconcerta che tu l’avessi scritta prima, per le tematiche trattate sembra scritta poche settimane fa. Sei profetico o semplicemente questo paese è così fascista che ciclicamente ripropone certe dinamiche?
Credo che la spiegazione sia ancora più banale: quello che viviamo ora è solo la fotografia di qualcosa che ha origine in tempi molto lontani, è una pianta che ora è cresciuta a dismisura ma i cui semi sono stati sparsi nel terreno, per chi li voleva vedere, parecchi anni fa. I prodromi dell’odio, della cattiveria, di un mondo che si sta incancrenendo in un rancore individuale, sociale, antropologico c’erano eccome ed erano evidenti. C’è stato un momento in cui ho avuto l’impressione che questa storia fosse invecchiata male, ma era solo ingiustificato ottimismo. E alla fine mi sono trovato, purtroppo, con una instant serie tra le mani senza volerlo.

Diciamo che questo paese ti aiuta molto, tutto cambia per rimanere uguale. Persino I Cavalieri dello Zodiaco.

Non voglio sapere com’è, lo hai visto? (Annuisco). Mi dicono che è una bella monnezza (riannuisco, fidandomi di Damiano D’Agostino), non so se reggo, ma tanto so già che lo vedrò. Però grazie, almeno ci arrivo preparato. Sarà un lutto che vivremo, pure questo. Comunque quello delle proprietà intellettuali è un mondo ancora più cristallizzato, ormai nessuno si inventa più niente, è soltanto il riciclo e la rimodernizzazione di quelle vecchie.

Oddio, ora che ci penso è esattamente la stessa cosa che succede in politica.

Torniamo alla Laurea in autosabotaggio (110 cum laude) che ti autoassegni nella serie. Farla così politica era un modo per mettere alla prova te stesso e Netflix?

Mi fa ridere, perché in parte mi verrebbe di risponderti sì, ma la vera domanda è perché e soprattutto per chi lo faccio? Nessuno sta qui a chiedermi la prova di niente, è la capoccia mia che è bacata. Quindi sì, il mio subconscio mi ha sicuramente spinto a farlo pure per questo motivo: mi ricordo tutti quelli che scrivevano, dopo Strappare lungo i bordi,  “ah, lo vedi, ora non parla più di certi temi, guarda caso, perché Netflix non vuole e lui si è piegato a questa cosa” e io già avevo in cantiere questa storia. Ho reagito bene, li ho screenshottati tutti, è un anno e mezzo che ho la memoria dello smartphone piena di quei commenti. Scherzi a parte, al netto di tutto, il punto è ancora un altro, questa storia come sempre parte da fatti veri, non c’è stato un solo Cesare nella mia vita, ma tanti che riassumo in un solo personaggio, e non siamo a Rebibbia, ma in uno dei tanti quartieri romani dove queste cose sono accadute. Questo mondo non mi renderà cattivo non è un manifesto politico, ma qualcosa che mi ha squassato dentro a livello emotivo, poi ovvio che dentro di me c’è anche il percorso personale e creativo fatto prima nel blog e poi nei libri, quello di partire dal particolare e arrivare all’universale, di raccontare cose private per aumentare via via la complessità.

Ho provato a spiegarti a degli amici americani. Gli ho detto: prendete Il giovane Holden, immaginate che un moderno Pasolini lo racconti con l’ironia di uno Scola che abbia quarant’anni oggi e sia cresciuto a Rebibbia.

Vabbé, te non stai bene.

Però è vero che ti sei inventato uno stile, un linguaggio, un modo di raccontare. Tocca capire se ora vuoi andare oltre, come credo potresti, o continuare su questo percorso. A mio parere come i tre autori citati puoi e devi sperimentarti anche altrove.

Allora, non sono capace. Quando ci ho provato, ho fatto cose brutte.  Nel senso che io non sono bravo come sceneggiatore, non sono uno che è capace di inventarsi delle storie con l’intreccio, la risoluzione, tutta quella roba là non mi viene bene. Sono capace a raccontare quello che provo io e a tradurre in immagini mie ciò che ho vicino, che sento addosso, la realtà che mi sta intorno. Se dovessi pensare di raccontare l’interiorità di qualcun altro che non conosco faticherei un botto, mi sembrerebbe sempre un’operazione in qualche modo arbitraria. Io mi sento quasi in colpa pure verso i personaggi di finzione, se racconto qualcosa del loro intimo mi sembra che è come se non fossi titolato a farlo, perché io posso parlare solo di me stesso. Conta che quando entro a fondo delle emozioni altrui, penso a Sara, la chiamo per indagare se sto andando nella direzione giusta. Per Dimentica il mio nome ho fatto un G2 con mia madre di quattro giorni, a rileggere tavola per tavola.

Eppure in Dodici secondo me ci riesci

E invece pensa che Dodici, secondo me, è il libro dei grandi limiti miei, in cui io ho preso le misure di quello che non ero buono a fare.

Quattro anni fa se ti avessi detto “farai due serie d’animazione di successo per Netflix” mi avresti riso in faccia. Ma è successo. Dopo aver visto Questo mondo non mi renderà cattivo ti dico che fra meno di quattro anni parleremo di un tuo film da regista. Tu ce l’hai questo sogno?

Allora, sì e no, nel senso che in realtà non ce l’ho come sogno di prestigio, non è che mi frega tanto l’idea di fare il regista di cinema invece che di serie, ma trovando una storia da blocco unico narrativo e d’immaginario, sì mi piacerebbe parecchio. E poi le storie raccontate al cinema su di me hanno un effetto diverso, mi piacciono le serie e ne vedo tante, ma la sala, il grande schermo sono un’altra cosa. Non credo però possa essere una cosa che farò a breve, ma è qualcosa che sì, mi piacerebbe fare. Ma mi metterò dietro una macchina da presa solo con la storia giusta, per il rispetto che ho per quest’arte non forzerò in alcun modo il destino.

Ora nel cassetto ho soprattutto storie che hanno un respiro seriale, ed è anche inevitabile, perché raccontando cose vere, che mi succedono, quello è il ritmo del racconto. La vita non è mai compatta come richiede un film o forse semplicemente io non so essere così sintetico come quel formato pretenderebbe. E poi non lo so raccontare il viaggio dell’eroe.

Niente Hollywood quindi. Ma dopo tre graphic novel edite negli Stati Uniti da Ablaze (La profezia dell’armadillo, Un polpo alla gola, Dimentica il mio nome), la voglia di metterti alla prova lì c’è?

Non ho le qualità per fare quella roba, nel senso che quella roba devi essere forte a disegnare, oppure devi avere delle qualità di scrittura fuori dal mondo.

Stai tentando di prendere il master di secondo livello in autosabotaggio, vedo. Ovviamente non ti immaginavo a fare Hulk, magari che ne so un pezzo di Spiderverse. Scherzi a parte, c’è un mercato indipendente pazzesco dove potresti avere successo

Finora lì non ho avuto molta fortuna, mi piacerebbe che l’animazione possa abbattere questo muro, so che per l’Armadillo hanno scelto la voce di uno stand-up comedian inglese famoso e non mi dispiacerebbe fosse finalmente un biglietto da visita. Poi, oh, io ho sempre e solo feedback da paesi ispanofoni. Spagnoli, argentini, messicani.

Probabilmente perché emotivamente e politicamente sono molto simili agli italiani. In particolare ai romani di Rebibbia…

Hai ragione, anche io l’ho spesso pensato. Ma più della Francia che comunque è così simile a noi?

Mmm non così simile, qua ti frega aver studiato al liceo Chateubriand.

Mi sa. In effetti lì hanno un welfare state che funziona, stanno troppo bene per sentirsi simili a noi.

Ti posso fare alla fine di questa intervista la domanda più difficile? Come stai?

Allora, se ti rispondo nell’ambito di un’intervista che guarderà un miliardo di persone, ti dico bene, perché oggettivamente il lavoro mi va bene, la salute, tutto sommato, a parte il colesterolo, non è un problema, sono una persona molto fortunata e quindi devo rispondere bene.

Se me lo chiede un amico al bar gli dico che sto una merda, perché comunque sto con un sacco di dubbi e di sensi di colpa, esaurito per mille cose, allo sbando perché mi chiedo a 40 anni se sto a fa’ le cose giuste nella vita.

Quindi non lo so, non lo so, facciamo una media, diciamo medio.