Sundance, Carmen Emmi, il regista del film rivelazione, Plainclothes, racconta il suo film ispirato a La conversazione di Coppola

E’ la storia, realmente accaduta, di un agente in borghese cui viene assegnato il compito di adescare e arrestare uomini gay: fin quando non si innamora di un uomo che dovrebbe incastrare. La sua vita viene stravolta quando si innamora di un bersaglio (Tovey)

I dettagli della carriera cinematografica di Carmen Emmi dipingono il quadro di una vera storia di successo al Sundance – e il festival del cinema è appena iniziato.

Nativo di Syracuse, New York, Emmi si è laureato in cinema alla USC School of Cinematic Arts prima di rivolgere la sua attenzione alla scrittura, nel tentativo di far decollare la sua carriera a Hollywood. L’ispirazione è arrivata da una curiosa serie di circostanze che sembravano convergere nello stesso periodo. Emmi, che ha fatto coming out durante i suoi anni di college, si stava ancora riconciliando con quel percorso mentre suo fratello si preparava ad entrare nelle forze di polizia.

Poi un caro amico gli ha raccontato la storia di un parente che lavorava sotto copertura in Florida, incastrando uomini gay in un’operazione segreta. Emmi non riusciva a credere che fosse vero, e la sua ricerca online ha portato alla scoperta di casi ancora più inquietanti, tra cui uno a Long Beach, in California, dove gli uomini gay venivano presi di mira dalle autorità per aver avuto rapporti consensuali. Nel 2016, ha iniziato a scrivere quello che sarebbe poi diventato Plainclothes, il suo primo lungometraggio sia come sceneggiatore che come regista. Il film segue un promettente agente sotto copertura incaricato di adescare e arrestare uomini gay che finisce per disobbedire agli ordini quando si innamora di un affascinante bersaglio.

Grazie anche ad un pizzico di fortuna Emmi si è assicurato velocemente i finanziamenti, un gruppo di produttori intraprendenti, un cast stellare in cui brillano Tom Blyth (Hunger Games) e Russell Tovey (American Horror Story) e infine un posto al Sundance Film Festival 2025. Il sogno di ogni laureato in cinema. 

Abbiamo incontrato Emmi e ci siamo fatti raccontare tutto del film, dalle scene di sesso alle scelte musicali, e del perché la sua città natale è così importante per lui: “essere un regista che viene da Syracuse e che racconta questa storia queer, è fondamentale per me, anche rispetto alla mia storia, la dimostrazione che anche se provengo da un posto conservatore e da una famiglia di agricoltori, posso comunque essere chi voglio e posso farlo con le persone a me più care”.

Nel video del Sundance a un certo punto hai trattenuto le lacrime al solo pensiero di essere stato ammesso al festival. Come sono le sue emozioni a pochi giorni dalla prima a Park City?

Beh, con tutto quello che sta succedendo in questo momento, è dura. Ho passato molto tempo a Los Angeles, quindi il mio cuore è lì. È difficile sentirsi eccitati quando le persone soffrono così tanto. Inoltre, oggi, a seconda di chi hai votato, può anche essere una giornata molto difficile. Questo comunque è stato il mio sogno fin da bambino, da quando ho visto Little Miss Sunshine al Carousel Mall con la mia famiglia. Ho sempre desiderato andare al Sundance, ma cercavo di non pensarci troppo perché non volevo che mi si spezzasse il cuore. Quando ce l’ho fatta è stato davvero un sogno che diventava realtà. La mia famiglia sta arrivando, così come i miei amici del college. È davvero un momento speciale.

A proposito di famiglia, il fatto curioso è che hai sviluppato questo interesse per il cinema molto presto ma i tuoi genitori sono da sempre degli agricoltori.

Sì, la mia è una famiglia di agricoltori dagli anni ’40. Mio padre lavora in fattoria da quando ha 7 anni. Sono stato il primo nipote nella nostra famiglia italo-americana, però non sono stato spinto in nessun modo verso questa professione, anche se trascorrendo molto tempo con mio nonno ho avuto modo di osservarlo lavorare e ho imparato tantissimo su questo mestiere, soprattutto nelle serre.  Nonostante questo, non ho mai sviluppato il pollice verde e i miei hanno capito subito che non ero portato: quando una volta mi hanno affidato il compito di curare alcune piante, hanno ritrovato tutto morto… [Ride.] I campi, il contatto con la terra rimangono fondamentali per me anche se ho fatto altro. D’estate torno a casa e aiuto con la semina, e quello è un momento sacro, mi aiuta molto con la scrittura. È molto meditativo. Questa è la mia prima sceneggiatura, e penso che la mia storia e le mie abitudini in un certo senso mi abbiano aiutato a perfezionarla.

Questa è la tua prima sceneggiatura, ed è nata da un’idea scaturita da un articolo del Los Angeles Times su “un bell’agente sotto copertura” a Long Beach. Hai capito subito che volevi esplorare l’argomento in modo più approfondito con una sceneggiatura?

Il mio amico Vincent mi ha parlato del fratello del suo amico, che era un agente di polizia in Florida e faceva questo tipo di lavoro sotto copertura. Era il 2016, e ho subito pensato che non fosse vero. Ho fatto qualche ricerca e ho navigato online per trovare qualcosa di correlato all’argomento, ed è stato allora che mi sono imbattuto nell’articolo del LA Times. È stato pazzesco. Ho intervistato l’uomo che ha fatto causa alla città di Long Beach, e ho iniziato a intervistare gli agenti. Amo Syracuse, dove sono cresciuto, ma non mi sono sempre sentito di appartenere a quel posto. Anche nel teatro del liceo, non mi sembrava che ci fosse spazio perché la mia identità queer emergesse veramente, quindi l’ho tenuta a bada. Non l’ho nemmeno riconosciuta fino a quando non ho avuto 20 anni. Ho finito per fare coming out un po’ più tardi nella vita, durante gli studi alla scuola di cinema. Quando ho letto quell’articolo e ho iniziato la ricerca – un momento che ha coinciso con l’ingresso di mio fratello nelle forze di polizia – tutte queste sensazioni sono tornate. Non sapevo dove metterle, non potevo fotografarle, quindi ho dovuto scrivere. E così è nata la sceneggiatura.

La sceneggiatura faceva parte della tua formazione alla USC?

No, ho studiato produzione alla USC. Abbiamo imparato a scrivere cortometraggi ma non lungometraggi. L’insegnamento era più focalizzato sull’imparare a fare un film piuttosto che a scriverne uno. Ho dovuto fare tutto da solo dopo la scuola di cinema. 

Hai imparato sul campo o ti sei appoggiato a qualche libro?

Ho cercato di leggere così tanti libri, e pur non volendone criticare nessuno… mi è sembrato impossibile imparare in quel modo. Così ho cambiato strada e mi sono messo a guardare un sacco di film: La conversazione di Francis Ford Coppola, che mi ha aiutato molto, Il cigno nero di Darren Aronofsky [scritto da Mark Heyman, Andres Heinz e John J. McLaughlin], Duel di Steven Spielberg che mi ha insegnato l’approccio emotivo alla struttura. Poi un giorno, ero sdraiato sul pavimento a Brooklyn e, ripensando alla mia esperienza di coming out, ho realizzato, che non era lineare. Era molto frammentata. È stato allora che ho capito che volevo approcciare questo film come se Lucas stesse ripensando alla sua esperienza di coming out, da quando incontra Andrew per la prima volta fino a quando riceve la lettera. Sapevo che tutto questo doveva avere un senso emotivo, ma non doveva andare dalla A alla Z. Doveva essere come l’immagine in uno specchio infranto. 

Quanto tempo ci è voluto per scriverla?

Ho iniziato nel 2016, e quella era davvero solo una bozza per lo sviluppo del personaggio. All’epoca lavoravo come freelance; facevo branded content e lavoravo anche come direttore della fotografia. Dovevo darmi da fare per potermi permettere di vivere a Los Angeles e poi a New York City. Non potevo concedermi delle pause per scrivere, quindi mi ritagliavo dei momenti tra un lavoro e l’altro. Ho iniziato davvero nel 2018 e ho finito la prima versione il giorno del mio compleanno, il 30 aprile 2020. Ho passato un anno a revisionarla e l’anno successivo a cercare di raccogliere fondi.

Quanto è stato difficile quel processo?

Sono stato fortunato. Il mio compagno di stanza al college alla USC usciva con un uomo che produce film nel Regno Unito, [Arthur Landon], che è socio di Lorton Entertainment, una casa di produzione cinematografica. È un amico, ha letto una delle mie prime bozze e ha detto: “se questo non viene realizzato, è un vero peccato”. All’epoca, stava lavorando a due altri film, ma mi ha suggerito di continuare a lavorarci su, perché alla fine avremmo trovato un modo per realizzarlo. Ho seguito il suo consiglio, ma non sapevo se saremmo riusciti a trovare i finanziamenti, ed ero pienamente preparato a girarlo con il mio telefono e con la mia videocamera Hi8. Ho realizzato tre proof of concept perché volevo capire da solo come rappresentare la mente interiore di Lucas.

Quando ho finito il terzo test, l’ho mostrato ad Arthur, il quale ha pensato di finanziarlo lui stesso, perché era difficile ottenere finanziamenti altrimenti. Sono stato molto fortunato in questo senso. Ma ci sono voluti tre anni.

Parliamo del cast, Tom Blyth e Russell Tovey, come li hai scelti?

Bernard Telsey ha fatto il casting del film per noi, e abbiamo visto un sacco di persone per Lucas. È stato difficile perché Lucas è sempre stato una combinazione di me e mio fratello in un certo senso, e questo ha reso tutto più difficile. Poi Tom è arrivato da noi, l’ho incontrato su Zoom. Appena è apparso sullo schermo, non so descriverlo… ho capito che era Lucas e basta. Sono andato a vedere il nuovo Hunger Games. Non avevo visto [gli altri film della serie] quindi sono entrato pensando che fosse una commedia d’avventura in stile Jumanji. Non è così, è molto cupo. Vedendo quel film, ho capito che poteva fare qualcosa del genere perché ha portato avanti lui quella storia. Sono andato a Calgary dove stava girando Billy the Kid perché non volevo fare questo casting su zoom. Dovevamo avere un incontro di un’ora, ma alla fine sono state cinque. Abbiamo preso un caffè, e i membri del cast di Billy the Kid continuavano a fermarsi, e ho visto il modo in cui interagiva con loro. Si amavano tutti. È un leader nato, e sapevo che per il mio primo lungometraggio sarebbe stato fondamentale che l’attore protagonista fosse qualcuno in grado di guidare il cast in quel modo. Alla fine, siamo usciti insieme fino alle 4 del mattino, e lui mi ha accompagnato alla porta e abbiamo continuato ad abbracciarci. È stato un sogno lavorare con lui.

Russell è stata una scelta di casting dell’ultimo minuto. Di nuovo, ero molto titubante perché avevo pensato a questo personaggio per così tanto tempo. Era vagamente basato su un uomo che avevo incontrato. Ho fatto coming out nello stesso periodo in cui Looking era su HBO; quindi, ho sempre tenuto quel cast di uomini su un piedistallo, soprattutto Russell. Quando una delle mie produttrici, April Kelly, che è britannica, mi ha suggerito Tovey, ho detto: “assolutamente no. Non lo farà mai. È una leggenda!”. Menomale che gli ha mandato la sceneggiatura di nascosto: è stato un sì immediato. È semplicemente uno dei migliori attori di oggi, onestamente. C’è un detto: “Non incontrare i tuoi eroi”, ma chi lo dice non ha mai incontrato Russell Tovey… È davvero una persona incredibile. Lo stesso innamoramento l’ho avuto con Maria Dizzia, appena è apparsa su zoom mi ha detto che la sceneggiatura le ricordava La conversazione, e io ho risposto: “hai capito. Hai il lavoro”.

(Inserire foto) – Nathan Lane, a sinistra, e Tovey in Angels in America. Helen Maybanks

Le scene di sesso sono perlopiù allusive. Le interazioni tra Lucas e Andrew così come le sequenze di cruising non sono esplicite… Non c’è nudo integrale, né nudità gratuita. C’è un po’ di carne, ma l’attenzione sembra essere più sulla relazione e sulle loro interazioni. È stato voluto? Come hai affrontato ciò che hai chiesto ai tuoi attori?

Beh, anche mio padre è nel film, interpreta il padre di Lucas. Quindi, sapevo che avrei intervallato il filmato del padre ad alcuni di quei momenti e continuavo a chiedermi fino a che punto avrei dovuto spingermi. Ma c’è qualcosa di più sexy del trattenersi? La scena fondamentale del film è quando Andrew chiede a Lucas: “posso toccarti?”. Quello, per me, è ancora più sensuale della scena in macchina [quando fanno sesso]. Gli attori erano davvero disposti a tutto, ma non sarò mai il tipo di persona che dice: “ora faremo questo”, in termini di nudità. Volevo che tutti si sentissero al sicuro. Bisogna sentirsi al sicuro. Stiamo facendo un film. Non è come un intervento chirurgico. 

Parliamo anche della musica, che sembra così puntuale e meditata. Qual è stato il tuo approccio alla scelta delle canzoni e della colonna sonora?

La musica è stata fondamentale. Ho una playlist sconfinata che ho dato al cast e alla troupe prima di girare. La musica è stata probabilmente una delle mie principali ispirazioni, soprattutto Lana Del Rey, R.E.M., i Cranberries. Quando è arrivato il momento di capire chi sarebbe stato il compositore, sapevo che non saremmo stati in grado di permetterci quel tipo di artisti perché avevamo un budget molto basso. Il supervisore musicale mi ha mandato una proposta di Emily Wells che si è rivelata perfetta. Mentre giravo il film, ascoltavo solo la sua musica.