
A teatro, a volte, si ha la sensazione che qualcosa ci stia parlando davvero. Ho paura torero, in scena al Teatro Argentina, è uno di quei rari momenti in cui arte e realtà si sfiorano, si guardano negli occhi, si riconoscono. E fanno male. Claudio Longhi firma un lavoro necessario. Non per celebrare Pedro Lemebel – scrittore e attivista, icona queer e dissidente radicale – ma per restituire alla scena il potere scomodo e salvifico del teatro politico. Un teatro che non catechizza, non commemora, non consola. Ma smuove. Scuote. Emoziona.
Il romanzo da cui prende le mosse lo spettacolo è un corpo vivo: tenero, straziato, carico di desiderio e dolore. Alejandro Tantanian lo ha trasposto con intelligenza teatrale, mantenendone la carne, il sangue e la voce. Longhi ne raccoglie l’urgenza e la trasforma in un dispositivo scenico stratificato, mobile, vibrante. Qui, la narrazione si alterna al dialogo, la scena si contamina con il racconto, la finzione si impasta con la cronaca. Il teatro, insomma, fa il suo lavoro: connette esistenze.

Lino Guanciale in “Ho Paura Torero” al Teatro Argentina.
Foto @MasiarPasquali
E al centro di tutto, c’è lei: La Fata dell’angolo. Un’anima fragile e indomabile. Un corpo eccentrico, marginale, irriverente. Un essere umano pieno d’amore e di malinconia. Lino Guanciale ne offre un’interpretazione radicale, sorprendente, interamente sottratta al cliché. La sua Fata non è una caricatura, né una bandiera: è una persona. Una creatura che vive, ama, sogna, sbaglia, ride, soffre. Un personaggio che entra nel cuore dello spettatore perché è fatto di quella stessa materia fragile e luminosa di cui siamo fatti noi.
Il giovane Carlos, interpretato da Francesco Centorame, è il detonatore narrativo e sentimentale della vicenda. Il loro rapporto – mai pienamente ricambiato, eppure intensissimo – è la miccia che accende la possibilità di un riscatto, di una trasformazione. Per amore, la Fata tradisce la propria disillusione e abbraccia la rivoluzione. Senza ideologie, ma con passione.
Il teatro di Longhi è sempre stato teatro del pensiero, teatro che pensa il mondo. Ma qui, finalmente, è anche teatro del sentimento. Unisce razionalità e poesia. Prende posizione, ma lo fa con grazia. E nel costruire questo mondo scenico – fatto di casse, pareti mobili, proiezioni, costumi sgargianti e musiche struggenti – ci regala un affresco che mescola la crudezza della Storia al kitsch di un sogno glitterato.
Le scene di Guia Buzzi, le luci di Max Mugnai, i video di Riccardo Frati, i costumi di Gianluca Sbicca e le musiche di Davide Fasulo compongono un’orchestrazione impeccabile. Ma ciò che colpisce è l’equilibrio: nessun elemento invade l’altro, tutto si tiene, tutto respira. E in questo respiro collettivo si inserisce il lavoro del cast.
Mario Pirrello e Sara Putignano, nei panni grotteschi di Pinochet e della consorte, incarnano il potere come farsa. Ridicoli, ossessivi, mostruosi. Ma mai caricaturali. Accanto a loro, le presenze sempre puntuali e misurate di Daniele Cavone Felicioni, Michele Dell’Utri, Diana Manea e Giulia Trivero: una coralità liquida, multiforme, necessaria.
C’è una scena che resta addosso: l’invasione della platea da parte dei manifestanti, le immagini dei desaparecidos, le voci spezzate che chiedono giustizia. Ma non è solo una trovata. È un pugno nello stomaco. È teatro che oltrepassa la quarta parete e ci chiede: dove siamo noi, oggi, rispetto a quella Storia? Quanto di quella lotta ci riguarda ancora?
E poi, c’è lei, la parola che dà il titolo. Ho paura torero. Una frase che è una canzone, una parola d’ordine, un grido d’amore, un addio. Un codice segreto che unisce eros e rivolta, identità e solitudine. Il momento in cui la Fata canta il suo cuore, sapendo che verrà spezzato, è forse il momento più alto dello spettacolo. Lì, nel canto, c’è tutta la rivoluzione che serve: quella che nasce dal desiderio, dalla diversità, dalla bellezza.
Questo spettacolo non si limita a rappresentare una storia: la attraversa, la interroga, la contamina. Non si esaurisce nella messa in scena: si apre a una comunità, invita a una riflessione, sussurra una possibilità. E lo fa senza proclami, senza compiacimento, senza estetismi gratuiti.
Alla fine, il pubblico applaude. Molti si commuovono. Non per pietà, ma per riconoscimento. Perché in quella Fata, in quel suo amore sbilenco, in quella sua ostinazione a credere ancora in qualcosa, vediamo una parte di noi. Una parte che forse abbiamo dimenticato. Ma che il teatro, ogni tanto, ci restituisce.
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