
La quinta giornata del festival Custodi di sogni – ultima giornata trascorsa nel Centro Sperimentale prima di spostare il proiettore a Casa del Cinema – non ha deluso, anzi. L’Omaggio a Riccardo Freda: conversazioni perdute è stata una bella occasione per gli storici amici e collaboratori per restituire un ritratto umano, comico e sincero del regista: amante dei western, di John Ford, di James Fenimore Cooper, di Emilio Salgari, dei cavalli.
Bernard Tavernier era stato suo assistente. Freda è uno di quegli autori che ha passato il vaglio della critica francese, prima di essere compreso in Italia, dove era considerato un semplice macistologo. “Nel ’78 o nel ’79 Baldo Vallero di Movie Club ci disse, Ma perché non includete anche Riccardo Freda nella rassegna? Noi ignoravamo l’importanza del regista. Non sapevamo neanche che fosse vivo!” ha esordito Paolo Luciani.
Roberto Torelli ha raccontato una sua avventura con Freda, alla ricerca di finanziamenti per un film d’azione con protagonisti animali parlanti. Il progetto passò per le mani di Scola e si tentò il bando ministeriale dell’Archivio Luce. Vinse, però, la figlia di Bettino Craxi, con un film d’animazione su Garibaldi.
In sala anche Patrizia Pistagnesi, Cristina Torelli e Steve Della Casa, che ha moderato il dibattito e che ritroviamo in versione giovanile nel documentario omaggio.
Il cinema venne a bussare alla porta di Freda. Quando era bambino, nella sua villa a Milano, vennero a girare una scena con carrozza e cavalli. “Il cinema americano mi ha allevato”, confessa l’autore fumando un sigaro. Il padre aveva finanziato la primavera araba. La moglie, Gianna Maria Canale, incontrata per strada in via dei Due Macelli a Roma, davanti allo storico guantaio: quando la vide rimase pietrificato dalla sua bellezza.
Il secondo incontro della mattina è stato dedicato ai “comici più bravi a passare dal muto al sonoro”, come hanno commentato Enzo Pio Pignatiello, Simone Santilli e Paolo Venier. Il Progetto S.O.S. Stanlio & Olio, da loro ideato nel 2019, si occupa di salvare le versioni italiane dei film di Laurel e Hardy. I ricercatori hanno raccontato la storia del doppiaggio italiano dei film dei due comici. Quando si passò al sonoro, il doppiaggio non esisteva ancora. Con i muti la traduzione era facile: si sostituivano i cartelli. Per i sonori i produttori ebbero l’idea di far rigirare i film in cinque lingue.
Ladroni è il primo mediometraggio in italiano, di cui è stato ritrovato solo il negativo scena alla George Eastman House di Rochester. Lo slang piacque molto al pubblico italiano e decisero di mantenerlo successivamente nel doppiaggio. Alberto Sordi non fu il primo doppiatore di Oliver Hardy e si sospetta che non fu lui ad interpretare la famosa canzone “Guardo gli asini che volano” (con il testo di Riccardo Morbelli – autore anche del testo di “Ba ba baciami piccina”). Carlo Cassola (omonimo del romanziere) e Paolo Canali, doppiarono il duo dal ’32 fino alla fine del ’38. Erano due italiani nati all’estero che parlavano male la lingua nostrana. Probabilmente avevano anche una somiglianza vocale a quella di Laurel e Hardy.
Si è iniziato con Monsieur Don’t Care di Percy Pembroke – un muto con Stan Laurel protagonista, parodia del film Monsieur Beaucaire del ’24 con Rodolfo Valentino. Presentato solo al MoMa, quella di Custodi di sogni è stata la prima proiezione italiana. A seguire, Non andiamo a lavorare di Lloyd French. Il film, del ’46, conserva il doppiaggio di Sordi e Zambuto. Sotto Zero, del 1938, con la regia di James Parrott, vede invece le voci di Cassola e Canali. Un documento superstite, importante anche solo per essere riuscito a sfuggire alla distruzione del ’42, quando fu ordinato l’invio al macero di tutte le pellicole straniere.
Pignatiello, Santilli e Venier hanno raccontato anche la loro recente esperienza davanti ad un pubblico di bambini. Avevano paura dell’accoglienza ma sono stati ampiamente ripagati quando, a pochi secondi dall’inizio del film, le risate hanno riempito la sala. Dopo la proiezione, i piccoli hanno fatto la fila per abbracciarli, ma anche i grandi hanno riso.
Il pomeriggio ha avuto tutt’altro tono nella Sala Cinema del Centro Sperimentale. Dalla Georgia, il restauro di Green Valley (La valle verde), del 1967, di Mera Kokochashvili. Sofia Babluani ha delineato il contesto storico di un film che incarna l’anima del paese, appartenente al periodo d’oro del cinema georgiano. Il padre del regista era un violinista; uno dei suoi allievi Sergej Paradzanov. Fu deportato durante le purghe staliniste. Il film racconta la storia di una famiglia di contadini durante il periodo dell’industrializzazione. Il rapporto complesso tra moglie e marito è metafora di un mondo che sta cambiando in modo incontrollabile. L’antieroe protagonista, Sosana, legato alla terra e agli animali, comincia pian piano a perdere tutto, sfogandosi con rabbia su ciò che resta.
Babluani ha raccontato che l’attore Ilia Bakakruri (il Mastroianni locale) si rifiutò di girare la scena dello stupro; il regista dovette spiegargli che non era lui stesso a commettere la violenza ma il personaggio, e che l’atto era necessario e funzionale al simbolismo narrativo. Un simbolismo che segna proprio una svolta di quegli anni, e che rende questo film una piccola rivoluzione.
Dal realismo socialista che imponeva di raccontare la realtà, Kokochashvili voleva cercare la verità nel cinema: e fu per questo che i sovietici mossero pesanti critiche alla pellicola, che metteva in scena la storia di un singolo invece che della collettività. Green Valley riuscì comunque a raggiungere le sale ma la propaganda giornalistica lo lacerò, intitolando gli articoli con frasi del genere: “Tutti abbandonano la proiezione”.
Testimoni, oggi, di un film che getta nella nebbia, tra lacrime e silenzi, nessuno ha lasciato la sala.
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