
Nel film del regista e sceneggiatore Ameer Fakher Eldin, Yunan, una meditazione lenta ma avvolgente sull’esilio, chi è stato sradicato può ritrovare le proprie radici solo per scoprire di non essersene mai davvero allontanato.
Nulla del passato è cambiato, tranne il posto che occupiamo in esso: “Sarai andato, dimenticato. Come se la tua esistenza non fosse stata altro che un’illusione.” A dare corpo al film è una performance intensa e misurata del libanese Georges Khabbaz nel ruolo di Munir, uno scrittore di origini mediorientali, non specificate, che vive ad Amburgo. Il dramma si insinua lentamente nello spettatore, con un fascino ipnotico amplificato da un potente linguaggio visivo e dalla suggestiva ambientazione sulle isole Hallig in Germania.
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Munir viene introdotto nello studio di un medico, tormentato da frequenti difficoltà respiratorie che sembrano sopraffarlo. Ma gli esami non rilevano nulla di anomalo: il dottore gli suggerisce che il problema potrebbe essere lo stress e che una pausa potrebbe fargli bene.
Le telefonate alla sorella, rimasta in patria, rivelano che la madre (Nidal Al Achkar) sta sprofondando sempre più nella demenza. Forse nella speranza di trovare ispirazione per il romanzo che fatica a scrivere, Munir la esorta a raccontargli una storia dell’infanzia, quella di un pastore (Ali Suleiman) incapace di vedere, sentire o parlare, che aveva solo il suo gregge e una moglie “bella come la luna” (Sibel Kekilli). Tuttavia, la madre ricorda solo l’inizio e ha dimenticato il nome del pastore.
C’è un’aura di fiaba nei segmenti che danno vita a questa storia, girati in Giordania con toni terrosi e caldi. Tuttavia, queste sequenze si ripresentano più volte del necessario, rallentando la narrazione fino a trovare una vera integrazione solo nella parte finale, quando Munir riesce a immergersi completamente nel racconto nel racconto.
Tagliare un paio di queste digressioni nella parte centrale avrebbe migliorato il ritmo generale.
Dopo aver detto addio, con poca convinzione, alla fidanzata di Amburgo, Sarah (Laura Sophia Landauer), e averle affidato il suo cane, Munir decide di seguire il consiglio del medico e partire. Ma la pistola nascosta nel suo bagaglio suggerisce che il suo viaggio abbia un obiettivo ben più definitivo.
Raggiunge in treno e traghetto l’isola di Langeness, al largo nel Mare del Nord, un luogo isolato, perfetto per il suicidio.
Il cielo plumbeo sembra dissolversi nelle acque scure che si perdono all’orizzonte. La proprietaria della pensione, Valeska (Hanna Schygulla), lo informa bruscamente che non ci sono stanze disponibili, con un sottile gioco di ambiguità che potrebbe farla sembrare una razzista poco accogliente. Ma quando Munir la insulta e lei esige delle scuse, si rivela invece gentile, offrendogli una stanza spartana in una dependance in ristrutturazione.
La fotografia di Ronald Plante, con i suoi lenti movimenti di macchina, esprime con eleganza l’isolamento di Munir mentre vaga tra i pascoli verdeggianti e le coste battute dal vento. Il poeta tedesco dell’Ottocento Theodor Storm definì le Hallig “sogni fluttuanti”, un’immagine perfetta per descrivere la suggestione visiva del film.
L’isola ha una quiete pastorale: le oche avanzano in fila, le pecore e le mucche brucano indisturbate, ma Munir continua a portare il suo dolore come un peso insopportabile. In una scena memorabile, scavalca un recinto e si ritrova in mezzo a un branco di bovini nervosi, che lo scrutano con una curiosità sospettosa, mentre un toro sembra pronto a caricarlo da un momento all’altro.
Il figlio taciturno di Valeska, Karl (Tom Wlaschiha), lo osserva con lo stesso atteggiamento diffidente, anche se sua madre inizia ad affezionarsi a quell’estraneo.
Le isole Hallig sono soggette a inondazioni più volte l’anno, e i residenti hanno imparato a convivere con le maree tempestose, costruendo case e edifici su collinette artificiali. Ma le previsioni annunciano venti fortissimi e un temporale di rara intensità, minacciando un’inondazione epocale. Valeska sposta Munir nella pensione principale, mentre Karl si occupa di mettere in sicurezza il bestiame e preparare il terreno per l’imminente tempesta. Quando Munir si offre di aiutare, Karl lo ignora.
Le scene che seguono, accompagnate dalle struggenti note orchestrali della compositrice Suad Bushnaq, sono davvero mozzafiato. La natura si scatena con tutta la sua furia: onde possenti si infrangono sulle barriere, il mare si riversa nei campi, sommergendo la terra. Le riprese con il drone della pensione e degli edifici agricoli trasformati in isole galleggianti sono spettacolari e, qualsiasi effetto visivo sia stato usato, risulta impercettibile.
Se il dopo-tempesta regala un’immagine maestosa della morte, mostra anche il potere di rinascita della natura. Come metafora dello sradicamento, della perdita d’identità che l’esilio porta con sé e della sua possibile riconquista,
Yunan è un film che si insinua lentamente nello spettatore.
Gran parte della rinascita di Munir avviene durante una serata al bierhaus locale, dove gli abitanti del villaggio si abbandonano a canti e bevute, tenendolo ai margini fino a un’improvvisata gara di lotta, che gli fa riscoprire il desiderio di vivere.
In una scena dal sapore più prevedibile, Valeska interrompe i canti tradizionali tedeschi e mette della musica araba più ritmata. Munir, inizialmente rigido, inizia a ballare lentamente, poi con sempre maggiore energia. È un cliché, ma a quel punto il film ci ha già coinvolti abbastanza da accettarlo senza difficoltà.
Con il suo sguardo cupo e il volto segnato, Khabbaz costruisce un protagonista magnetico: il suo risveglio interiore, grazie alla scrittura di Fakher Eldin e alla sua interpretazione, non lo trasforma in un uomo nuovo, ma gli permette di alleggerire il peso della sua disperazione e, finalmente, di respirare.
Nel ruolo di Valeska, Hanna Schygulla sfodera tutta la sua presenza scenica iconica, incarnando con naturalezza la saggezza e la resilienza di chi abita questi luoghi solitari. È lei l’elemento stabilizzatore del film, imperturbabile persino di fronte alla minaccia della natura.
Yunan è il secondo capitolo della trilogia Homeland di Fakher Eldin, regista di origine palestinese e siriana che, come il suo protagonista, vive ad Amburgo.
Il film segue The Stranger (presentato a Venezia nel 2021) e precede Nostalgia: A Tale in Its First Chapters, attualmente in lavorazione. Se in alcuni momenti il ritmo si allenta, la raffinatezza stilistica e l’intensità poetica del film offrono una ricompensa più che meritata.
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