
Portare in scena I Tre Moschettieri in versione musicale è un’operazione che richiede coraggio, ingegno e un pizzico di follia.
Non basta l’aura epica di Dumas, non basta il fascino senza tempo del motto “Tutti per uno, uno per tutti”: serve una visione capace di amalgamare racconto, musica e spettacolo senza scadere nella mera illustrazione. I Tre Moschettieri – Opera Pop, nella produzione di Stefano Francioni e del Teatro Stabile d’Abruzzo, si avventura su questo terreno con una certa grandiosità visiva e sonora, una audacia un po’ guascona, affidandosi alla regia di Giuliano Peparini per creare un affresco teatrale di forte impatto.
Se l’intento è quello di coniugare classicità e modernità, il risultato è un’esperienza teatrale suggestiva, ma non priva di fragilità.

I Tre Moschettieri. Photocredit: Teatro Brancaccio Roma
L’incipit dello spettacolo, con il ritrovamento di un libro in una fabbrica di scatoloni, introduce l’espediente metanarrativo che vede il protagonista trasformarsi nell’autore stesso, Dumas, interpretato da Roberto Rossetti, ma se il meccanismo intende creare un ponte tra presente e passato, il suo effetto si risolve in una narrazione che appare più pretestuosa che realmente funzionale.
Dumas guida il pubblico attraverso la vicenda, ma il suo ruolo risulta talvolta ridondante, una sorta di Virgilio della sintesi che interviene là dove il libretto non osa affidarsi alla sola potenza della messinscena.
Dal punto di vista musicale, il lavoro di Giò Di Tonno dà vita ad una partitura che alterna momenti di sincera efficacia a soluzioni che sembrano più funzionali che ispirate: l’impianto sonoro non riesce a delineare con nettezza le personalità dei tre moschettieri, affidando la loro caratterizzazione unicamente all’estro vocale e alla prestanza scenica degli interpreti. E qui, bisogna dirlo, Di Tonno, Matteucci e Galatone si muovono con l’autorità che deriva dall’esperienza, compensando con la loro presenza le mancanze di una scrittura musicale che li supporta solo a tratti.

I Tre Moschettieri. Photocredit: Teatro Brancaccio Roma
Scenograficamente, lo spettacolo si affida a una combinazione di teli, proiezioni e strutture modulari che suggeriscono una Parigi più evocata che realmente restituita. Il disegno luci, che si abbandona a una reiterata alternanza di chiaroscuri e bui improvvisi, rischia di appesantire il ritmo anziché accentuarne la tensione drammatica. Peparini orchestra il tutto con il suo consueto gusto per la spettacolarità visiva, ma il risultato, pur accattivante, non sempre riesce a conferire alla narrazione quel dinamismo fluido che un’opera di questo respiro richiederebbe.
Il corpo di ballo, coreografato con precisione da Veronica Peparini e Andreas Müller, si conferma un elemento cardine dell’allestimento, muovendosi con coesione e contribuendo a un’estetica che gioca su contrasti e composizioni di forte impatto. La loro presenza non è solo decorativa, ma parte integrante dell’azione, e in certi momenti diventa quasi più eloquente della stessa drammaturgia.

I Tre Moschettieri. Photocredit: Teatro Brancaccio Roma
Dal punto di vista interpretativo, Sea John affronta il ruolo di D’Artagnan con una presenza scenica vibrante e un uso sapiente della prossemica teatrale, restituendo al giovane guascone un’energia scalpitante che trova compiutezza in un fraseggio limpido e ben proiettato. La sua interpretazione si sviluppa attraverso un’intonazione precisa e una dinamica vocale che alterna con efficacia momenti di slancio impetuoso a passaggi più lirici e introspettivi. Beatrice Blaskovic conferisce a Costanza una delicatezza scenica che si traduce in una linea di canto morbida e vellutata, caratterizzata da un’emissione ben sostenuta e un timbro capace di restituire sfumature di grande raffinatezza espressiva. Camilla Rinaldi, nel ruolo di Milady, costruisce un personaggio di notevole presenza drammatica, giocando sulla dicotomia tra seduzione e ferocia. Il suo controllo vocale, abbinato a una recitazione calibrata, le consente di tratteggiare un’interpretazione che, sebbene a tratti incasellata nel cliché, riesce a emergere per incisività timbrica e solidità scenica.

I Tre Moschettieri. Photocredit: Teatro Brancaccio Roma
Cristian Mini offre un Richelieu di notevole spessore interpretativo, rinunciando a caratterizzazioni caricaturali per privilegiare una recitazione asciutta e misurata, nella quale il potere si traduce in un atteggiamento perennemente vigile e calcolatore. La sua linea vocale è caratterizzata da una dizione impeccabile e da un utilizzo della tessitura che enfatizza la sua autorità scenica. Leonardo Di Minno, nei panni di Rochefort, gioca con il personaggio, costruendolo su una fisicità spavalda e un fraseggio tagliente, che accentua il carattere beffardo del suo ruolo. Gabriele Beddoni si distingue per la sua versatilità performativa, offrendo un’interpretazione che unisce abilità vocale, presenza scenica e un controllo fisico impeccabile, dimostrando una notevole padronanza delle tecniche acrobatiche applicate al teatro musicale. Luca Callà, nel ruolo di Luigi XIII, utilizza con intelligenza il linguaggio corporeo, riuscendo a comunicare la fragilità e l’ambiguità del suo personaggio attraverso una recitazione essenziale, ma fortemente suggestiva.
Un allestimento che affascina e coinvolge, ma che avrebbe potuto osare di più nella costruzione dei caratteri e nell’approfondimento psicologico, evitando di limitarsi a una spettacolarizzazione fine a sé stessa. In ogni caso, per chi ama il genere, lo spettacolo resta un’esperienza teatrale ricca di spunti e di momenti di indiscutibile efficacia scenica.
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