Prova a Prendermi – Il Musical: la truffa diventa spettacolo tra jazz e malinconia

Nella sobria regia di Piero Di Blasio e con le scene di Lele Moreschi, la storia di Frank Abagnale Jr. si trasforma in un racconto d'iniziazione dal ritmo swing e dall'anima sospesa tra illusione e disincanto.

In un’epoca in cui il musical, più che un genere, rischia di farsi calligrafia spettacolare, imbattersi in un allestimento che tenta – e in parte riesce – a raccontare l’avventura umana dietro la patina del divertissement rappresenta un piccolo evento. Prova a prendermi, che Viola Produzioni ha portato sulla scena italiana, si muove in equilibrio fra l’intrattenimento d’evasione e la ricognizione di quel sogno americano che, negli anni Sessanta, vestiva ancora i panni del self-made man, pronto a reinventarsi ogni giorno, anche a costo di mentire. 

Non che il mito sia venuto meno, ma il retrogusto amarognolo, oggi, si sente forte. È proprio questo sapore bifronte che la regia di Piero Di Blasio riesce, almeno in parte, a restituire in uno spettacolo che ha la leggerezza di un gioco, ma non disdegna la malinconia del racconto di formazione.

Lontano dall’imitazione pedissequa della pellicola di Spielberg da cui deriva, questo Prova a prendermi si affida a una scrittura teatrale che deve molto alla maestria di Terrence McNally e all’invenzione musicale di Marc Shaiman e Scott Wittman, già padri di quell’Hairspray che, se da un lato segnava il trionfo del pastiche stilistico, dall’altro sapeva scavare nel sottosuolo sociale del sogno americano. La partitura qui si diverte con lo swing, il jazz e le ballate intimiste, accompagnando il viaggio di Frank Abagnale Jr. con una leggerezza che si fa talvolta necessaria fuga dall’inesorabilità della realtà.

Da questo impianto prende avvio una messinscena che trova nella regia di Di Blasio una guida sobria e calibrata. Mai incline alla facile seduzione visiva, il regista affida alla scena il compito di essere non cornice ma architettura narrativa. La scenografia firmata da Lele Moreschi si distingue per un minimalismo concettuale che diviene grammatica del racconto. L’impianto scenico ruota attorno a un grande oblò d’aereo, che si staglia come una finestra sul mondo e sul destino dei personaggi: elemento mobile, dinamico, modulare, capace di scandire le transizioni spaziali e temporali senza interrompere il flusso narrativo. È una soluzione scenotecnica che, pur nella sua apparente semplicità, si rivela di grande efficacia drammaturgica: divide, connette, sottende, conferendo all’intera rappresentazione una chiarezza visiva di raro equilibrio.

La partitura scenografica si completa di pochi altri elementi, calibrati con precisione millimetrica: arredi simbolici, superfici che si trasformano con l’ausilio delle luci di Emanuele Agliati, che plasmano gli ambienti – aeroporti, camere d’albergo, stazioni ferroviarie – con campiture cromatiche ora fredde ora calde, evocando senza mai descrivere. Una scenografia di evocazione più che di esposizione, in cui la scelta di non appesantire lo spazio scenico permette agli interpreti di abitare il vuoto come luogo dell’immaginazione e della memoria.

Tommaso Cassissa raccoglie l’onere e l’onore di incarnare Frank Jr., riuscendo a liberarsi dalle catene dell’inevitabile paragone cinematografico. Il suo è un personaggio che cerca il riscatto in ogni travestimento e la salvezza in ogni fuga, e Cassissa lo tratteggia con una misura che privilegia la freschezza dell’intenzione alla compiutezza formale. La vocalità, non sempre impeccabile, si stempera in un fraseggio che riesce a restituire il candore ferito e l’ironia dolente del protagonista.

Di opposta natura, ma complementare, l’interpretazione di Claudio Castrogiovanni nel ruolo dell’agente Hanratty: restituisce con rigore e malinconia l’ambiguità di un uomo che rincorre un ragazzo e, forse, sé stesso.

Non meno riuscito il lavoro di Simone Montedoro nei panni del padre di Frank, la sua interpretazione di “Fly, Fly Away” rappresenta uno dei vertici emotivi dell’intero spettacolo.

Le coreografie misurate e sottili di Rita Pivano, governano le sequenze corali, in particolare il numero ambientato su un treno, restituendo un’ironia sottile, mai compiaciuta, mentre la partitura coreutica mantiene un rigore di fondo che si riflette anche nel disegno luci e nei costumi curati da Francesca Grossi. Le linee pulite, i tagli netti e le scelte cromatiche contribuiscono a quel gusto rétro che pervade tutto lo spettacolo senza mai cadere nella cartolina nostalgica.

Alla fine, resta il senso di un volo che si compie solo a costo di una caduta, ma che vale la pena di essere tentato. Perché il teatro, come la vita, a volte è solo questo: provare a prendere, prima che il sogno sfugga dalle mani.