Tahar Ben Jelloun: “Amo i classici ma quello europeo di oggi è un cinema da bistrot”

Narratore dei paesi del Mediterraneo, intellettuale critico dei regimi al governo, appassionato di cinema, è a Bari come giurato al Bif&st.

“Il Mediterraneo per me è la visione di un mondo, un modo di vivere, un’idea di felicità e insieme di una vita insieme. Questo è il Mediterraneo”, afferma. “Se penso all’Asia o all’America, ovvio che il Mediterraneo là non ci sia, ed è il motivo per cui quando sono lontano da quei paesi non mi mancano. Per vivere ho costantemente bisogno di sedermi a un bar o a un ristorante sotto una pianta di ulivo e mangiare delle verdure fresche. Purtroppo, il Mediterraneo è diventato un cimitero, il più grande del mondo. Trentamila morti in vent’anni, una vera tragedia.”

Lo scrittore, al Bif&st in qualità di presidente del “Concorso Meridiana”, è tra le voci più alte della letteratura dell’area mediterranea. Del mare su cui si affacciano tanti paesi diversi ha un’idea che è insieme poetica e politica. E’ in nome delle culture e delle storie che ha raccontato nei suoi romanzi ambientati nella terra di origine, il Marocco, come pure in Francia o in Italia, che sente l’urgenza della denuncia. 

Cosa possono fare il cinema e la letteratura per raccontare una tragedia che si perpetua da decenni?

I cineasti, gli scrittori e anche i giornalisti possono fare molto. Prima di tutto conoscere davvero il Mediterraneo e interrogarsi su cosa significhi veramente parlarne, perché non è un problema raccontare il mare ma far conoscere le donne e gli uomini politici. Quanti governano oggi, che siano in Francia o in Italia o in Spagna, non appaiono a un livello di dignità tale da potersi occupare di questo dramma. Credo che ci troviamo di fronte a una battaglia in cui non tutti combattono con le stesse armi. I registi e gli scrittori dovrebbero porsi l’obiettivo di mostrare meglio la realtà del Mediterraneo, ma a essere sinceri anche quando riescono a farlo non è facile per le loro opere essere divulgate. Un film greco o uno che arriva dal Sud del Mediterraneo ha difficolta a trovare una distribuzione, non è un mistero che esercenti e distributori privilegiano i grandi film americani di azione o di puro intrattenimento.

Quando è nato il suo interesse per il cinema?

Ero molto piccolo, mi piaceva andare al cinema appena potevo. Ricordo perfettamente il primo film che ho visto, era egiziano, una sorta di musical in bianco e nero pieno di canzoni e balli sulla storia di amore infelice. Avrò avuto cinque o sei anni, ero in compagnia dei miei genitori, quel melodramma con i protagonisti che piangevano mi sembrò ridicolo e allo stesso tempo molto, molto affascinante. Il secondo invece fu un film di guerra, era stato mio cugino a portarmi al cinema. A un certo punto due aerei si combattevano nel cielo e lui saltò sulla sedia pieno di eccitazione, e io gli dissi: ‘Oh, calmati, è solo cinema. Non c’è niente di vero’. Da allora ho visto quasi sempre almeno un film al giorno”.

Che tipo di spettatore è?

Molto attento ed esigente. Vedo di tutto, e quando un film è brutto me ne vado. Sono qua in giuria e quindi se non mi piace un’opera non posso certo alzarmi, ma se sono da solo lo faccio senza problemi. Mi rendo conto che spesso ci sono registi che fanno film senza avere davvero delle buone idee. Il cinema di oggi, secondo me, è malato, sta morendo. Quello che per me è il vero cinema, cioè quello di autori come John Ford, Billy Wilder, Howard Hawks, Jean Renoir, Jean Delannoy, Fellini, Visconti, Vittorio De Sica, ma penso anche a Kurosawa e Ozu, ecco film come i loro non si fanno più. Quel cinema è morto. Gli ultimi a praticarlo sono stati Scorsese, Coppola e anche Michael Mann, attualmente non ce ne sono altri intorno. Se guardo ai cineasti europei, vedo autori legati a un cinema che chiamo ‘di bistrot’, filmano quella che considerano la realtà ma spesso non riescono a stabilire una distanza tra la camera e l’oggetto ripreso. Ciò che crea l’effetto di assistere a qualcosa di reale non è detto sia per forza la presa diretta della realtà. Pensiamo a Da qui all’eternità di Zinnemann con Deborah Kerr, non è la mia idea di storia d’amore però mentre sono di fronte allo schermo ci credo totalmente, ne sono catturato. So benissimo cosa sta per accadere, eppure nonostante l’abbia visto una decina di volte mi commuovo sempre. 

Cosa non le piace dei film dei registi contemporanei? 

Si parla troppo e ci si diverte troppo. Tutti parlano, ridono e fanno molto l’amore anche quando non ce ne sarebbe bisogno. Faccio mie le parole di Orson Welles che durante una conferenza stampa a Parigi disse: ‘Perché far vedere due persone che fanno l’amore se in quel momento non succede qualcosa di veramente importante per la sceneggiatura?’. Non sono contro il mostrare il sesso sullo schermo, sia chiaro. Ma ho l’impressione che a volte i registi cerchino semplicemente di riempire i vuoti e non di costruire una narrazione. 

Fino a che punto, invece, si può raccontare la morte?

La morte è costantemente raccontata. E non solo al cinema dove ormai viene esibito di tutto e dove tutto è finzione: uccisioni, dissezioni, ferite. La morte, quella reale, ci viene mostrata dai media ed è entrata senza filtri nelle case. Ad essere un tabù è diventata la vita con le sue sfumature. Nella maggior parte dei film le vite sono spettacolarizzate, amplificate, e ciò con l’intento di far divertire e dimenticare i problemi, ma per me il cinema deve puntare ad altro. Deve essere problematico. 

Si può parlare di crisi del racconto? 

Sì, per quanto riguarda il cinema credo ci sia una crisi di idee e quindi del racconto in termini generali. La narrazione cinematografica è stata rimpiazzata da quella seriale, in un certo senso siamo a una scrittura che si rifà al feuilleton. È una crisi che tocca anche la letteratura, è indubitabile che ci siano degli scrittori che scrivono pensando già alla possibilità di vendere i diritti per far diventare il loro romanzo una serie. Cinema e letteratura non sono la stessa cosa evidentemente, ma hanno molti punti di contatto e la serialità televisiva ha cambiato l’orizzonte di entrambi. Detto questo confesso di guardare le serie, ce ne sono di molto belle che ti prendono la mano e non te la lasciano più fino alla fine. 

Oltre alle serie vede ancora molti film?

Guardo e riguardo i classici, ogni volta scopro qualcosa di nuovo. Rivedo La contessa scalza di Mankiewicz e mi meraviglio per la perfezione. Oppure Pandora con Ava Gardner o Femmina folle con Gene Tierney, film magnifici e terribili. 

Quindi per lei il cinema è essenzialmente quello classico?

Classico, sì senza dubbio. Amo molto anche il surrealismo, ovviamente Bunuel. E ho una passione per Buster Keaton e Charlie Chaplin. Quando vedo mio nipote, che è un ragazzino, ridere di fronte a un film di Charlot, ecco, so che questa è la prova che un certo cinema non prederà mai il suo senso.