“Mi sentii l’ultimo degli uomini”: Federico Fellini e la genesi traballante e straordinaria di 8 e 1/2

"Ero un regista che voleva fare un film che non ricordava più: è in quel momento che si è risolto tutto": così Federico Fellini raccontò al critico Giovanni Grazzini come nacque il capolavoro del 1963. Lo ricordiamo a 60 anni dall'uscita in sala (3 maggio 1963), il giorno della proiezione fuori concorso al Festival di Cannes dello stesso anno

Federico Fellini non voleva girare . O meglio, sì, certo, voleva girarlo. Ma fino alla fine, fino all’ultimo giorno prima dell’inizio delle riprese, non ne era convinto. Aveva paura. Era insicuro. Nella sua testa si rincorrevano idee e suggestioni, e non riusciva a mettere un ordine. Aveva parlato con i suoi sceneggiatori di uno spunto; c’erano le terme, e c’era questo personaggio in bilico. Ma non c’era altro. Aveva scelto Marcello Mastroianni, chiamato Sandra Milo, coinvolto Anouk Aimée. Era tutto pronto: i set erano quasi finiti, i macchinisti e gli operai erano entusiasti per questo nuovo grande film del “dottore”, come lo chiamavano, e lui, Fellini, non sapeva che cosa fare. Dove andare. A chi affidarsi. E che cosa, alla fine, raccontare.

Quel viaggio in macchina con Flaiano

Il nome stesso, , era uno scippo su una cartellina piena d’appunti, un riferimento al numero dei film girati e a questo, per metà pronto e per metà ancora fumoso. In una bellissima intervista fatta da Giovanni Grazzini e raccolta nel volumetto Sul cinema, edito da Il Saggiatore, Fellini racconta tutto. Per filo e per segno.

Dice che una sera parlò di ciò che aveva in mente con Flaiano, mentre erano in macchina verso il mare di Ostia. E che mentre spiegava provava a mettere in fila i pensieri, a dare loro una forma più chiara e consapevole. “Flaiano stava zitto, non disse una parola, non fece nessun commento, mi sembrò come insospettito, diffidente, geloso”. Anche Tullio Pinelli, continua Fellini, “taceva perplesso, forse dubitoso circa la possibilità di architettare una storia su un impulso così velleitario e difficilmente traducibile in fatti e situazioni”. Chi invece aderì immediatamente alla sua idea fu “Brunello Rondi, che è un ascoltatore impagabile, gli piace tutto, si eccita a qualunque progetto, pronto a partire e a collaborare in qualunque direzione, con qualunque proposta”.

Organizzare l’inesistente

Cominciarono, così, a scrivere separatamente. Ognuno aveva, insomma, la sua parte; e ognuno si occupava di una certa sequenza. Flaiano qui, Pinelli lì, e infine l’entusiasta Rondi. Per tutto il tempo, dice Fellini, non era stato in grado di decidere che cosa far fare a questo protagonista. Poteva essere un ingegnere, un avvocato o un giornalista. E questa cittadina termale in cui finisce, poi, cos’è? Una specie di Chianciano, sì. E in questo, solo in questo, la scintilla dell’intuizione iniziale sembrò assumere una consistenza precisa, effettiva, in cui sperare.

Un giorno, però, Fellini fermò la scrittura della sceneggiatura. Perché gli sembrava inutile organizzare l’inesistente. E in questo modo si trascinò fino alla vigilia dell’inizio delle riprese. Si convinse e scrisse una lettera a Rizzoli, al produttore, per dirgli chiaramente che no, questo film non c’è, non si può fare, lasciamo perdere: grazie, sul serio, ma no, veramente.

“Ero a metà della lettera”, spiega Fellini a Grazzini, “quando mi sento chiamare dalla vociaccia di Menicuccio, il capo macchinista, che dal cortile dello stabilimento mi dice se vado un attimo in teatro, perché Gasparino (un altro macchinista) festeggia gli anni, e offre un bicchiere di spumante, gli farebbe piacere che ci fosse anche ‘il dottore’”. E fu proprio in quell’istante che, quasi per magia, ogni cosa prese una direzione definitiva.

“Ero un regista senza via d’uscita”

Ricorda Fellini: “Gasparino con un cappelletto da muratore in testa e il martello che gli pende sulla coscia, stappa la bottiglia: ‘Questo sarà un gran film, dottore, alla salute! Viva 8 e 1/2. Riempie i bicchieri, tutti battono le mani, e io mi sento sprofondare nella vergogna, mi sento l’ultimo degli uomini, il capitano che abbandona la ciurma. Non salgo su nell’ufficio, dove mi aspetta a metà la mia lettera di fuga, ma siedo, vuoto e smemorato, su una panchina del giardinetto, in mezzo a un grande andirivieni indaffarato di operai, di tecnici, di attori appartenenti ad altre troupe al lavoro. Rifletto che mi trovo in una situazione senza via d’uscita. Sono un regista che voleva fare un film che non ricordava più. Ecco, proprio in quel momento si è risolto tutto; sono entrato di colpo nel cuore del film, avrei raccontato tutto quello che mi stava accadendo, avrei fatto il film sulla storia di un regista che non sapeva più qual era il film che voleva fare”. è nato così. Ed è diventato un classico, un cult, pure per questo: per la sua straordinaria, traballante e confusa genesi.