
La storia della Deposizione di Cristo, oggi universalmente riconosciuta come opera autografa di Andrea Mantegna, ha la forma di un racconto di resurrezione, degno del soggetto sacro che la tela rappresenta. Non è solo una riemersione fisica di un dipinto perduto, ma il riannodarsi di un dialogo interrotto tra passato e presente, tra lo sguardo dell’uomo rinascimentale e quello dell’uomo contemporaneo.
Conservata per decenni nel Santuario della Beata Vergine del Rosario di Pompei, silente e discreta nella sua presenza devozionale, la tela è stata riscoperta grazie all’intuizione critica di Stefano De Mieri, che ne ha riconosciuto l’identità celata sotto strati di ridipinture e restauri successivi.
Documentata da Pietro Summonte in una celebre lettera del 1524 a Marcantonio Michiel, “dov’è Nostro Signore levato dalla croce e posto in un lenzolo”, riemerge così dall’oblio. Il passaggio da San Domenico Maggiore a Pompei resta avvolto nell’oscurità degli archivi, ma oggi non c’è dubbio sulla sua appartenenza al catalogo di Mantegna.
Il restauro ha svelato un Mantegna maturo, riflessivo: la composizione si apre in un registro orizzontale, ordinato e misurato, in cui la monumentalità scultorea dei corpi si tempera con un’intensità emotiva calibrata.
Il corpo esanime di Cristo, deposto su un lenzuolo candido che si increspa in pieghe severe, è sorretto da Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, figure caratterizzate da turbanti e abiti orientaleggianti, che evocano una ricerca iconografica di impronta archeologica. La gestualità è solenne, priva di retorica, e il dolore si manifesta secondo quella grammatica delle emozioni che Mantegna aveva mutuato dallo studio dei modelli antichi e della statuaria classica.
Il paesaggio alle spalle si distende in una visione prospettica che coniuga la Gerusalemme del sacro racconto con un’immagine ideale della città antica: colonne spezzate, archi in rovina, edifici ricondotti a una classicità intellettuale e interiorizzata.
Non si tratta di uno sfondo accessorio, ma di un palcoscenico filosofico, in cui la memoria dell’antico è allegoria della caducità del tempo e insieme promessa di rinascita. Particolarmente significativo è l’arco in rovina sul lato sinistro, dove sono emerse dopo la pulitura due Vittorie alate, citazione colta dei rilievi dell’Arco di Tito, e testimonianza della erudizione visiva di Mantegna.
Sul piano iconografico, la Maddalena, inginocchiata ai piedi di Cristo, reca tra le mani un rosario con grani di corallo e ciondolo in cristallo di rocca: un dettaglio che sottolinea il dialogo tra la cultura figurativa e la tradizione devozionale del Meridione d’Italia. Le lacrime abbondanti che rigano i volti di Maria, di San Giovanni e della stessa Maddalena rivelano la sapienza nell’esprimere pathos senza mai indulgere al sentimentalismo. Sono figure, queste, che parlano un linguaggio universale, quello della pietà umana, scolpita nella memoria collettiva grazie alla cifra espressiva di Mantegna.
La qualità esecutiva del dipinto, analizzata nelle perizie condotte dal Gabinetto di Ricerche Scientifiche dei Musei Vaticani, si conferma altissima: l’uso di tempera magra su tela e il supporto in lino sottile, steso su pannello ligneo, sono caratteristici del pittore come è documentato nelle lettere al marchese Ludovico Gonzaga.
I pentimenti emersi durante la pulitura, le linee di costruzione prospettica tracciate con sicura padronanza, confermano l’autografia, mentre il disegno rigoroso e la stesura pittorica sobria, quasi ascetica, ricollegano l’opera al periodo estremo della carriera del maestro, tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni del Cinquecento.
L’esposizione presso Pinacoteca Vaticana ne valorizza la percezione attraverso un allestimento studiato nei minimi dettagli: la luce radente, calibrata con rigore scientifico, restituisce al dipinto la sua densità plastica, facendo emergere le volumetrie dei corpi e la ricchezza delle campiture cromatiche. Lo spazio è concepito come un invito alla contemplazione e all’ascolto silenzioso della materia pittorica.
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