Chromotherapia: il colore ha vinto, fatevene una ragione

All’Accademia di Francia a Roma, una mostra con sette stanze di overdose cromatica per dire addio al bianco e nero con stile (e un po’ di sfacciataggine).

Se c’è una cosa che il mondo dell’arte ha imparato dal Novecento, è che il colore non è solo una questione di pigmenti, ma una battaglia ideologica, un dilemma estetico e, perché no, anche un diversivo terapeutico. CHROMOTHERAPIA, la nuova mostra dell’Accademia di Francia a Roma – Villa Medici, curata da Maurizio Cattelan e Sam Stourdzé, ci trascina senza mezzi termini in un vortice cromatico che oscilla tra la provocazione visiva e la rivincita di un medium troppo spesso bistrattato: la fotografia a colori. Una pratica, diciamolo, per lungo tempo ritenuta meno nobile della sua austera sorella in bianco e nero. Ma i tempi cambiano, e il colore, oggi, si prende la sua meritata vendetta.

Sino al 9 giugno 2025, la mostra si articola in sette sezioni e raduna diciannove artisti, ognuno impegnato a dimostrare che la fotografia a colori non è solo un vezzo decorativo, ma un arsenale di significati, illusioni e ribaltamenti di senso. Il percorso espositivo è una festa per la retina, una sorta di centrifuga visiva che alterna pop e surrealismo, kitsch e barocco, pubblicità e riflessione filosofica. Un antidoto alle desaturazioni minimaliste dell’arte contemporanea? Forse. O, più probabilmente, una dichiarazione di guerra alle gerarchie consolidate della storia della fotografia.

La cronaca ci ricorda che i primi tentativi di catturare il mondo a colori risalgono alla metà dell’Ottocento, con sperimentazioni che avevano più a che fare con la scienza che con l’arte. Ma è solo nel 1907 che i fratelli Lumière perfezionano l’autochrome, il primo procedimento industriale per la fotografia a colori, inaugurando un secolo di sperimentazioni e scetticismi. L’accusa? Troppo gioioso, troppo frivolo, troppo poco serio. Eppure, dal dopoguerra in poi, il colore si insinua nelle mani di artisti e fotografi che ne fanno un manifesto di libertà espressiva, sgretolando i confini tra fotografia documentaria e linguaggi artistici più contaminati.

Maurizio Cattelan & Pierpaolo Ferrari, TOILETPAPER. Courtesy of TOILETPAPER

In CHROMOTHERAPIA, ogni scatto è una dichiarazione di intenti. William Wegman trasforma i suoi Weimaraner in muse enigmatiche, trasfigurando il concetto stesso di ritratto animale. Juno Calypso, con il suo sguardo chirurgico sulle convenzioni visive del cinema e della pubblicità, ci costringe a riconsiderare il confine tra artificio e identità. Arnold Odermatt, l’ex poliziotto svizzero diventato fotografo, ci offre incidenti stradali così meticolosamente composti da trasformarsi in nature morte contemporanee. E poi c’è Walter Chandoha, che nei suoi felini ritratti con sfondi saturi ci ricorda che la cultura visuale può sublimare anche il più quotidiano dei soggetti.

L’ironia non manca, soprattutto quando ci si imbatte nelle immagini di Martin Parr, il quale, con un’irriverenza chirurgica, immortala la bulimia consumistica dell’Occidente tra piatti di patatine fritte e paradossi turistici. A ribadire che il colore può essere una lente per decifrare il mondo e i suoi tic, e non solo un esercizio di stile.

Tra i protagonisti della mostra, non poteva mancare l’eredità di Toiletpaper, il magazine ideato da Maurizio Cattelan e Pierpaolo Ferrari, che ha fatto del cortocircuito tra estetica pop e ossessione pubblicitaria il proprio marchio di fabbrica. Un tributo al colore come elemento perturbante, capace di sedurre e disturbare in egual misura.

Ma allora, qual è il senso ultimo di CHROMOTHERAPIA? Oltre il fascino immediato e l’energia vitaminica della palette cromatica, la mostra sottolinea un punto essenziale: il colore è un linguaggio, con le sue regole e le sue trasgressioni. La fotografia a colori, troppo a lungo relegata a un ruolo ancillare rispetto alle grandi narrazioni in bianco e nero, rivendica qui il proprio statuto artistico, dimostrando che l’intensità emotiva non si misura solo in chiaroscuri.

Cattelan, noto per la sua capacità di smascherare i tic culturali con arguzia e dissacrazione, qui non è artista ma curatore. Eppure, la sua mano si sente: nell’intelligente accostamento di opere, nell’ironia latente, nella scelta di mettere in scena una mostra che è tanto un’esplosione di colore quanto un’analisi impietosa della nostra percezione visiva.

Sam Stourdzé, dal canto suo, porta in dote la sua esperienza di specialista dell’immagine contemporanea, tessendo una narrazione espositiva che oscilla tra storia della fotografia e riflessione sul presente. Un equilibrio difficile, ma perfettamente riuscito.

CHROMOTHERAPIA non è una mostra che si limita a celebrare il colore; è un manifesto per la sua piena riabilitazione nell’arte fotografica, una sfida alle gerarchie visive e un invito a guardare il mondo con occhi più saturi. Perché, se c’è una lezione che questa esposizione insegna, è che il colore, lungi dall’essere un orpello, è un codice estetico capace di riscrivere la realtà. E noi, che lo si voglia o no, siamo immersi fino al collo in questa sinfonia cromatica.