
Certe espressioni artistiche non si comprendono con lo sguardo rapido del visitatore distratto, né tantomeno con l’urgenza classificatoria che affligge certa critica contemporanea. Occorre invece un’attenzione vigile, quasi affilata, capace di cogliere ciò che si cela sotto le incrostazioni del visibile.
È il caso del lavoro di Francesca Leone, la cui opera si sottrae a qualsiasi etichetta e agisce su un registro squisitamente interiore, con una coerenza formale che non ha nulla di estemporaneo. Di scuola certamente colta, ma immune dalla supponenza didascalica, l’artista sviluppa una grammatica plastica nutrita di memoria, silenzio, ferita.

I fiori della ruggine: le sculture nel deserto di Francesca Leone. Foto @Luisella Mariotti
Chi vada cercando effetti facili o trovate retoriche rimarrà deluso. La poetica della Leone, infatti, è tutta nella tensione tra materia e tempo, tra l’evidenza del degrado e il gesto del riscatto. Le sue sculture non sono “opere” nel senso riduttivo che oggi si attribuisce al termine, ma oggetti rivelati, emersi da un processo di decantazione fisica e mentale. Il metallo, rugginoso e segnato, proviene da cantieri abbandonati, luoghi della marginalità produttiva che l’artista percorre con attenzione quasi liturgica. La lamiera, un tempo anonima e funzionale, si trasfigura qui in elemento iconico, ferito ma non vinto, restituito alla forma attraverso una manualità paziente, a tratti ostinata. Il tempo, fattore corrosivo per eccellenza, è chiamato a partecipare: ha inciso, ossidato, lasciato tracce che non vengono cancellate ma anzi esaltate, come si farebbe con la patina in un bronzo antico.
Vi è poi, in questa pratica del recupero, una consapevolezza che travalica la moda dell’ecologismo di maniera. L’azione della Leone non è un gesto politico né una rivendicazione programmatica, bensì una meditazione sul tempo e sulla possibilità di ridare senso a ciò che la cultura industriale ha condannato al silenzio. In questo senso, le rose e le rocce che costituiscono la struttura morfologica di molte sue opere non sono semplici allusioni naturalistiche, ma epifanie: ciò che fiorisce dalla ruggine, ciò che resiste nel deserto.
Nel caso di Francesca Leone, la biografia non è un accidente laterale né un fardello genealogico da eludere: è piuttosto una componente strutturale, discreta ma ineludibile. L’ascendenza – quella di Sergio Leone, con il suo lessico fatto di polvere, attese e silenzi tesi – si riflette, senza proclami, nella tensione spaziale e narrativa delle sue opere. Nessun compiacimento citazionista, nessuna trascrizione stilistica: si tratta, semmai, di una consonanza profonda, nutrita negli anni, che riaffiora in forme nuove.
Il deserto di Zzz…desert non è una scenografia, ma un paesaggio mentale, abitato da echi familiari filtrati dalla materia, dalla ruggine, dal suono. Conserva il segno di una poetica dello sguardo assimilata sui set, ma reinventata in un’intensa visione pittorica. E in questa misura asciutta, priva di effetti, risiede forse la prova più compiuta della sua autonomia.
È esattamente questo il filo conduttore dell’installazione Zzz…desert, attualmente visibile alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, e che anticipa la partecipazione dell’artista all’Expo 2025 di Osaka. Qui, più che altrove, la Leone elabora un paesaggio interiore, un “deserto” autobiografico fatto di reminiscenze oniriche e di citazioni affettive, in cui si avverte, in filigrana, l’eco dei paesaggi aridi e metafisici che popolano la filmografia paterna. Ma non vi è, si badi, nessuna nostalgia dichiarata: piuttosto, una sedimentazione profonda, una compostezza iconografica che trasforma il ricordo in materia plastica.
Le sculture, composte da elementi metallici che evocano rocce e rose, sono accompagnate dalla musica del compositore romano Marco Turriziani, che combina il ronzio delle api con il sussurro del vento e duri rimbombi. L’intervento sonoro non accompagna né decora, ma compenetra l’opera: crea una spazialità acustica che rafforza la natura immersiva dell’installazione. Ronzii, vibrazioni, sonorità telluriche: un paesaggio uditivo che non è mai illustrativo, ma strutturale, come se la materia stessa emettesse un suono.
Non è irrilevante che una delle tre rose dell’installazione sia stata concessa in prestito da Intesa Sanpaolo, mentre le altre due – donate dall’artista alla GNAM – entreranno a far parte della collezione permanente e saranno esposte nel Giardino Aldrovandi. Un gesto che suggerisce, forse, una forma di radicamento nella città, nella sua storia naturale, nel suo corpo vivo.
Va notato che l’iniziativa si inserisce in un momento cruciale per il sistema dell’arte italiano, che fatica, troppo spesso, a riconoscere la sostanza autentica dei percorsi artistici a favore di una visibilità effimera. In tal senso, la presenza di Francesca Leone all’Expo di Osaka rappresenta un’eccezione eloquente. Non tanto per l’esposizione in sé, quanto per ciò che essa simbolizza: un’arte che non grida, che non cerca conferme nel rumore del presente, ma che interroga il tempo, e nel tempo si inscrive.
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