Berlino 75, Peter Hujar’s Day: dentro la vita di un grande fotografo

Dalla trascrizione di una conversazione che sembrava perduta, un film di Ira Sachs che vede Ben Whishaw in una prova superlativa

Nel 1974, la scrittrice Linda Rosenkrantz e fotografo Peter Hujar si ritrovano nell’appartamento newyorkese di quest’ultimo per registrare una conversazione. Il focus di questo lungo dialogo, che va avanti dalla mattina alla sera, è il racconto dettagliato di una giornata nella vita del celebre fotografo, per bocca dello stesso Hujar. Partendo dalla trascrizione di questa conversazione, considerata persa per decenni e ritrovata soltanto pochi anni fa, il regista Ira Sachs ricrea l’aura gentile e intima di quel pomeriggio di cinquant’anni fa, affidandosi completamente alle prove attoriali e alla forza delle parole.

Inizialmente concepito come un cortometraggio, il film dura appena 75 minuti e vede protagonisti Ben Whishaw e Rebecca Hall. 

Whishaw interpreta Hujar, racconta una giornata noiosa, monotona, quotidiana: questioni di soldi, pranzi, chiamate di lavoro, sonnellini, incontri con altre figure di spicco della scena artistica della New York dell’epoca, come Allen Ginsberg. L’attore britannico, con un marcatissimo accento newyorkese, offre una performance attoriale che da sola vale (ed è) il film, il suo Peter Hujar è costantemente alla ricerca del controllo delle proprie emozioni, racconta in maniera volutamente distaccata e con atteggiamento svogliato anche i momenti più intimi, ma Whishaw di tanto in tanto crea delle spaccature in questa armatura da cui si intravedono le reazioni emotive.

Si tratta di un’interpretazione soggettiva e naturale in grado di trasportare lo spettatore all’interno dell’appartamento, quasi come se stessimo seduti al tavolo con Peter e Linda, anche grazie alla calda e ispirata regia di Sachs. 

Tutto ciò è, tecnicamente, notevole. 

Eppure, il film è troppo lungo e statico, non tanto nella messa in scena come ci si potrebbe aspettare da un film ambientato in un unico ambiente, quanto dal punto di vista intellettuale. 

La rigidità nella scelta di essere fedele alla trascrizione della conversazione finisce per essere una trappola che imprigiona il film in un circuito di dialoghi tutt’altro che stimolanti.

Ira Sachs negli ultimi anni si sta allontanando sempre di più da un approccio cinematografico tipico del cinema “indie” americano di cui è stato a lungo un esponente, avvicinandosi a una concezione da cinema arthouse europeo e qui probabilmente raggiunge l’apice di questa trasformazione. 

Si tratta di un esperimento formale, quasi un esercizio di stile tanto attoriale quanto registico, che può vivere esclusivamente all’interno di un contesto festivaliero e che sicuramente avrebbe avuto più forza se avesse conservato il suo stato iniziale di cortometraggio.