
Erodiade non è teatro di intrattenimento. È una tragedia moderna che affonda le sue radici nella lezione dei tragici greci e nella consapevolezza del teatro come rito. Un’operazione che richiede un ascolto attento e restituisce, a chi accetta la sfida, un’esperienza di conoscenza estetica ed emotiva non comune.
«Non fu con gli occhi il loro primo incontro. Fu con la voce: quella di lui, calda, tonitruante.» Il frammento apocrifo attribuito a Euripide potrebbe riassumere l’intero senso della Erodiade di Giovanni Testori, oggi restituita al palcoscenico del Teatro Vascello di Roma per la regia di Marco Carniti.
La voce, e non il corpo, è l’origine e il fine di questo amore impossibile tra la regina di Giudea e Giovanni Battista. È la voce del Battista che risuona come un richiamo irreparabile, un richiamo che accende il desiderio e insieme lo condanna all’insoddisfazione. Testori la trasforma in materia drammatica: un monologo che non concede mai tregua, che non ricerca pathos ma lo costruisce, con il rigore di un rituale arcaico.
Lo spazio scenico è essenziale, quasi vuoto. Un trono geometrico che allude alla croce – doppio simbolo di potere e sacrificio – e una serie di proiezioni sul fondo, curate da Francesco Scandale, che mostrano in sequenza ossessiva le settanta varianti grafiche della testa recisa di Giovanni Battista, eseguite da Testori stesso. Sono segni calligrafici che rimandano agli ex voto della scultura funeraria greca o alle lamine orfiche: immagini che fissano il volto dell’amato in un’icona di assenza, reiterata fino all’annullamento.
Francesca Benedetti è la voce e il corpo di Erodiade. La sua è un’interpretazione fondata su una perizia tecnica assoluta. Il lavoro sulla voce è minuzioso, calibrato: Benedetti dosa registri, timbri, intensità, riuscendo a trasformare ogni parola in un frammento di carne. Non c’è mai un gesto superfluo: il corpo rimane pressoché immobile, la tunica rossa che lo avvolge si fa quasi parte del fondale. La recitazione si fonda sulla sospensione, sull’intervallo tra il suono e il silenzio. È in questi vuoti che si consuma il dramma: Erodiade parla, ma il destinatario della sua parola non risponde. Come accade nella tragedia greca, la protagonista si rivolge a un morto, a un’assenza che si fa presenza ingombrante. Il dialogo negato diventa la vera struttura del monologo.
La regia di Carniti dimostra un rispetto assoluto per il testo, senza cedere a orpelli visivi o a soluzioni interpretative didascaliche. È un teatro della parola, nel senso più alto: l’azione si svolge tutta nella voce che pronuncia, nella voce che evoca, nella voce che rimane senza eco. Erodiade è consapevole di essere esclusa dal destino del Battista.

Francesca Benedetti in “Erodiade” al Teatro Vascello di Roma. Photocredit: Teatro Vascello
Lui ha scelto il martirio, ha deciso di appartenere a un ordine di senso che non le concede accesso. Lei rimane prigioniera di un amore che non si consuma mai, di un desiderio che si perpetua proprio nell’impossibilità.
David Barittoni firma una drammaturgia sonora che non accompagna ma incide. Suoni, rumori, pause, echi frammentati: è una partitura che ricorda le astrazioni musicali di Luigi Nono, più che un tappeto sonoro tradizionale. Funziona come il coro nella tragedia attica: scandisce i momenti di passaggio, sottolinea la ripetizione ossessiva delle domande senza risposta. Non c’è pathos musicale, ma una rarefazione del suono che si fa materia drammaturgica.
Il testo di Testori è un thrênos, un lamento funebre costruito su un flusso di coscienza che riprende le forme della nenia rituale. Erodiade ripete, ritorna, ricapitola. Non c’è sviluppo, né trama: c’è il tempo dell’attesa e della memoria. Il conflitto drammaturgico si condensa tutto nella volontà di decidere: Erodiade vuole “tagliare”, esercitare un gesto che sia suo. Quando tenta di uccidersi, il coltello le viene sottratto; ma il sangue sgorga ugualmente, senza che lei abbia potuto scegliere.
Francesca Benedetti restituisce tutto questo con una precisione che non ammette sbavature. La voce è strumento tecnico e insieme veicolo emozionale. Ogni variazione è misurata. La gamma espressiva è ampia, ma sempre controllata. Benedetti non cede mai al compiacimento, nemmeno nei passaggi più esposti. La sua Erodiade è una figura scultorea: potenza trattenuta, dolore raggelato in forma.
Lo spettacolo si muove in un equilibrio difficile: mantenere la distanza critica e, al contempo, restituire la potenza emotiva del dramma.
La risposta del pubblico del Vascello è stata di un’attenzione insolita. Nessun cenno di approvazione o di cedimento durante la rappresentazione. Un silenzio denso, che ha accompagnato l’intero monologo. Solo alla fine, un applauso misurato ma convinto ha riconosciuto la qualità dell’esperienza teatrale. Più che entusiasmo, un senso di rispetto: lo spettacolo di Carniti e Benedetti si è imposto non per forza spettacolare, ma per rigore e verità.
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