“Moby Dick alla prova”, da Melville a Orson Welles, il teatro come ossessione, tensione, scontro.

Elio De Capitani trasforma il palcoscenico in un arcipelago di forze contrastanti, tra eco shakespeariana e dissoluzione della rappresentazione

“Siamo alla sesta estinzione di massa, siamo al riscaldamento globale, siamo sull’orlo del baratro e continuiamo a correre” scrive il regista nelle sue note. Achab non è solo il capitano di una nave, ma il simbolo di un’intera civiltà che non sa fermarsi, che non sa cedere, che non sa accettare l’impossibilità della conoscenza assoluta.

Il teatro di Elio De Capitani si muove sempre lungo un crinale: quello in cui la parola si fa corpo, e il corpo si fa sintassi scenica, tensione nello spazio. Con Moby Dick alla prova, in scena al Teatro Vascello di Roma, De Capitani non si limita a portare in teatro l’adattamento di Orson Welles del romanzo di Melville, ma lo trasfigura in un dispositivo teatrale in cui ogni elemento è spinto fino al suo limite estremo. 

Il dramma si dispiega come un attrito tra l’attore e il testo, tra l’immagine e la sua evanescenza, tra la narrazione e il suo inevitabile fallimento.

Debuttato all’Elfo Puccini di Milano, lo spettacolo ha trovato al Vascello una dimensione nuova, quasi più viscerale. Il teatro diviene Pequod, la sala si trasforma in oceano. E su questa nave scenica, De Capitani è Achab, e Achab è il teatro stesso: un campo di forze in cui l’ossessione si fa linguaggio, il movimento si fa vertigine, la parola si fa destino. 

Moby Dick alla prova non è una trasposizione, né una riduzione, ma un attraversamento del mito, un viaggio in una materia letteraria che si offre per essere dilaniata e riscritta nel corpo dell’attore, nella coralità del gruppo, nella polifonia della scena.

De Capitani lavora in una dimensione che potremmo chiamare “drammaturgia dell’urto”. Ogni gesto, ogni parola si scontra con un’opposizione: Achab è il punto d’origine di questa collisione, la matrice che crea onde concentriche di tensione. 

Il suo corpo scenico è quello di un re Lear senza redenzione, di un Macbeth che non attende alcuna profezia. Non c’è uno spazio di riflessione, ma solo il precipizio dell’ossessione, che si ripete in un eterno ritorno. De Capitani non incarna solo Achab: è anche il padre Mapple, il vecchio Lear, l’impresario teatrale. Molteplici voci per un unico corpo attorale che si sdoppia e si contraddice, diventando il fulcro di un sistema teatrale in perenne movimento.

Attorno a lui, il cast costruisce un dispositivo di polifonia drammatica: Cristina Crippa, Angelo Di Genio, Marco Bonadei, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Massimo Somaglino, Michele Costabile, Giulia Viana e Vincenzo Zampa non sono solo comprimari, ma linee di fuga, elementi di una tensione che attraversa il palco e lo riempie di risonanze. Le voci si intrecciano, i corpi si muovono in una danza invisibile, orchestrata con sapienza. La musica dal vivo di Mario Arcari e i canti curati da Francesca Breschi non sono semplici accompagnamenti, ma veri e propri vettori drammatici che portano lo spettacolo a una dimensione altra, dove il tempo del teatro si confonde con il tempo del mito.

La scenografia è essenziale, e proprio per questo si impone con una potenza inaudita. Lo spazio scenico si dilata e si contrae, evocando l’immensità dell’oceano con minimi elementi. Il fondale non è un semplice sfondo, ma una superficie mutevole, un’entità viva che respira con gli attori. 

Ma l’evento scenico più radicale è l’apparizione della balena: non un trucco, non un espediente visivo, ma un’assenza che diviene presenza attraverso la pura potenza della scena. Come in Welles, non si cerca la rappresentazione, ma la sua negazione: Moby Dick è un vuoto, una forma senza corpo, un’idea che si fa carne nella mente dello spettatore.

Tutto questo porta Moby Dick alla prova in una dimensione che supera il teatro di narrazione e si spinge verso una forma di teatro come frattura. 

L’ossessione di Achab non è solo il motore della vicenda, ma la matrice stessa della scrittura scenica: il testo si spezza, si ripete, si rifrange in echi che lo spettatore è chiamato a ricomporre. De Capitani ci mostra un Achab che è anche l’uomo contemporaneo, spinto fino all’estremo del proprio desiderio autodistruttivo. 

Quello che rimane, alla fine, non è solo la potenza di una grande interpretazione o la coerenza di una regia raffinata.