Recensione Di ‘Beetlejuice Beetlejuice’: Winona Ryder E Michael Keaton Aiutano Tim Burton A Riscoprire La Macabra Bellezza Dei Suoi Giorni Di Gloria

Beetlejuice Beetlejuice inizia con una sequenza sorprendentemente deliziosa in cui Monica Bellucci, un demone succhia anime, accompagnata da "Tragedy" dei Bee Gees, si ricompone in un magazzino di oggetti smarriti dell'oltretomba.

La scena, che la vede cucire sé stessa come un’incantevole Frankenstein fai-da-te, è un omaggio alla figura della sposa vampira in Dracula di Bram Stoker, un tributo di Tim Burton alla letteratura gotica, e una dolce quanto oscura dedica alla sua partner fuori dagli schermi, giustappunto la Bellucci.

Questo è solo uno dei tanti colpi di genio di un sequel che vi anticipo subito è intelligente, pieno di divertenti richiami alla prima pellicola del 1988, e zeppo di numerosi riferimenti alla cultura pop di un certo tipo, da Carrie a Mario Bava, da Soul Train a Donna Summer. Durante la proiezione, più volte ho scritto nei miei appunti “Tim Burton è tornato!“.

Qualsiasi sequel arrivi al cinema dopo 36 anni dal suo predecessore, è meglio affrontarlo con cautela, soprattutto dato che, con l’eccezione di Frankenweenie del 2012, Burton sembra aver perso il tocco magico intorno i primi anni del nuovo secolo, almeno per chi scrive.

Sfruttando lo spirito maniacalmente giocoso di uno dei suoi successi d’oro più duraturi, il regista sembra rinato, producendo qualcosa di veramente tonico, specialmente grazie ai due attori che erano parte, non solo del primo Beetlejuice, ma anche di altre pellicole storiche come  Batman di Burton e Edward Mani Di Forbice. Parliamo ovviamente di Michael Keaton e Winona Ryder. 

Mi sono sentito in buone mani non appena l’eco spettrale della cover di Summer, “MacArthur Park“, è arrivato sui primi accordi di una partitura eccezionale di Danny Elfman, che inizia in modalità sinistra e diventa più diabolicamente goliardica, mentre la telecamera di Haris Zambarloukos si muove suadente attraverso la sonnolenta città di Winter River, fino alla casa infestata sulla collina acquistata dalla famiglia Deetz nel primo Beetlejuice.

La Warner Bros., non tutti lo sanno, ha cercato di realizzare un sequel sin dagli anni ’90, in particolare dopo che l’azienda nel 2011 ha assunto Seth Grahame-Smith, che qui condivide i crediti con gli sceneggiatori Alfred Gough e Miles Millar. 

Il successo di Burton nel realizzare un seguito così riuscito dopo tanti anni, è pelasemente dovuto a questi sceneggiatori con cui, tra l’altro, ha lavorato per il Wednesday di Netflix. 

A tal proposito, la star di quella serie, Jenna Ortega, è tra i nuovi arrivi più apprezzati nella squadra di Keaton, Ryder, Catherine O’Hara e Bob “dalla testa rimpicciolita”.

Parlando della trama, ancora con la stessa frangia nera frastagliata che sfoggiava da adolescente, Lydia Deetz (Ryder) è ora una madre vedova, nota per aver condotto un reality show chiamato Ghost House, dove da una soffitta dello studio invita gli spettatori con l’emblematico “Entra, se hai coraggio”. 

Plagiando i cliché dei più classici show dedicati al paranormale, Lydia persuade gli ospiti a condividere le esperienze più raccapriccianti e inspiegabili avvenute nelle loro case. Questo fin quando una visione di Beetlejuice (Keaton) seduto tra il pubblico dello studio non le fa capire che  non ha chiuso i conti il passato.

Lydia ha problemi anche in casa, difatti non ha un bel rapporto con sua figlia ancora adolescente, Astrid (Ortega), che risente del fatto che sua madre passi più tempo con i morti che con la propria figlia, e si irrita per la sua riluttanza a parlare del suo defunto padre, Richard (Santiago Cabrera), morto in un incidente in Amazzonia. 

Astrid pensa che le intuizioni soprannaturali di sua madre siano sciocchezze, anche perché si lamenta continuamente che proprio Richard sia l’unico fantasma con cui non riesce a comunicare.

Le vecchie tensioni tra Lydia e la sua matrigna e artista, Delia (O’Hara), si sono attenuate nel corso degli anni, nonostante quest’ultima sia diventata ancora più egocentrica. 

Gli sceneggiatori, stupendo ancora una volta, trovano una soluzione astuta alla scomoda assenza di Jeffrey Jones, condannato per un reato sessuale, che interpretava il padre di Lydia, Charles. 

In una spietata sequenza con la plastilina animata, che è classica di Burton, apprendiamo della recente morte orribile di Charles – anche se naturalmente nel mondo di Beetlejuice la morte è più una sosta che una destinazione; quindi, il personaggio persiste anche se la sua forma fisica originale viene cancellata.

Barbara e Adam Maitland, la dolce coppia prematuramente deceduta, interpretata da Geena Davis e Alec Baldwin, è scomparsa, tuttavia, come spiega Lydia hanno trovato una scappatoia. 

Il funerale di Charles, accompagnato stravagantemente da un coro di ragazzi che canta una versione inno di “Day-O” di Harry Belafonte, riporta la famiglia a Winter River. 

Con loro c’è il produttore di Lydia e futuro fidanzato, Rory (Justin Theroux), non proprio amato dalla figlia Astrid.

Avvolgendo l’intera casa in stile sudario ma con una garza nera, Delia inizia a trasformare il suo dolore performativo in un progetto chiamato L’Arte del Dolore.

Astrid è talmente disgustata da fuggire in città, dove incontra Jeremy (Arthur Conti), un fan di Dostoevsky; i due pianificano un appuntamento per la notte di Halloween allo scattare dell’ora delle streghe. 

Mentre tutto questo accade, Delores (Bellucci) sta terrorizzando l’oltretomba, uccidendo i “morti-morti” per reclamare l’anima marcia di suo marito, Beetlejuice. 

Con un flashback che ha fatto morire dalle risate l’intera sala stampa di Venezia, il loro breve matrimonio fantasma viene riassunto come un mini-film italiano in bianco e nero con sottotitoli, in pieno stile neorealista. 

A indagare sulla scia di distruzione di Delores è Wolf Jackson (Willem Dafoe), un’ex star dell’azione televisiva che ora fa il detective dei morti e che regala risate a fiumi con le sue occhiatine languide direttamente verso la telecamera per ottenere un’enfasi drammatica.

I vivi (o “sacchi di carne”, come li chiama Jackson) e i morti si intrecciano quando Astrid viene ingannata in un patto potenzialmente fatale, e Lydia è costretta a evocare Beetlejuice per aiutarla a attraversare l’alidlà e salvare sua figlia. 

Dato che Beetlejuice non crede nei favori gratuiti, emerge un piano alternativo di matrimonio per salvarlo da Delores, uno scenario da incubo in cui la familiarità di Lydia con i vermi di sabbia del deserto del primo film si rivela utile.

Il ritmo scattante, l’energia vivace e il flusso costante di momenti da ridere ad alta voce, suggeriscono la gioia che Burton sembra aver trovato nel rivisitare questo mondo, e per chiunque abbia amato il primo film, è contagioso.

Il titolo doppio, quel Beetlejuice Beetlejuice, potrebbe suggerire che questo sia il film di Keaton, ma la verità è che gli attori sono tutti ugualmente protagonisti e in perfetto equilibrio.

E se il film è fondamentalmente una storia madre-figlia, per certi versi anche straziante, interpretata alla grande dalla coppia Ryder e Ortega, la cosa più gratificante è trovare un Burton di nuovo in piena forma e divertente, una conferma delle sue potenzialità immaginifiche e della gioiosità con cui ha costruito il suo nome.

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