“Steve McQueen credeva di guidare meglio di tutti, ma guidavo meglio io”: parla Luc Merenda, che ha vinto un nastro d’argento

Protagonista di Pretendo l’inferno di Eugenio Ercolani, racconta la sua vita spericolata, più di quella di Steve Mc Queen

A volte capita di vederlo, in giro per Roma, nella sua Trastevere. L’ultimo approdo di una vita che lo ha portato in tutto il mondo: anzi, l’ultimo approdo di mille vite. 

Luc Merenda è nato nella campagna francese, cresciuto in Marocco – “ricordo dune incredibili, chilometri di sabbia in cui guidavo l’auto a dieci anni”, dice – per poi tornare a Parigi, che non ha mai sentito come casa sua. È ripartito a vent’anni per gli Stati Uniti, ha fatto mille mestieri, il lavapiatti, il bodyguard, ha praticato paracadutismo e arti marziali, ha vissuto in mezzo mondo. Finché non è arrivato a Roma, nel più strano dei modi: su un barcone, risalendo il Tevere. 

Vista da lì, la città doveva sembrargli ancora più bella. Se ne è innamorato, e Roma si è innamorata di lui: il cinema italiano degli anni ’70, che gli ha consegnato ruoli da duro, nel cinema a mano armata di quegli anni. 

Film come Milano trema, la polizia vuole giustizia o come La polizia accusa, il servizio segreto uccide, diretti da Sergio Martino. O come Il poliziotto è marcio, il primo film a disegnare un poliziotto corrotto, grazie al genio di Fernando Di Leo.  Luc Merenda aveva un bellissimo viso, malinconico e seduttore. Un viso da duro, ma un’ombra di scontrosa poesia. Uno di quei volti che hanno caratterizzato il cinema degli anni ’70. 

Quentin Tarantino, che ama alla follia quel cinema, lo ha chiamato per un cameo in Hostel – parte II, prodotto dal regista di Pulp Fiction. 

Domenica, a Roma, Luc Merenda ha ricevuto il Nastro d’argento come protagonista dell’anno di un documentario. Il film si chiama Pretendo l’inferno: lo ha diretto Eugenio Ercolani, da un soggetto di Steve Della Casa, grande esperto di cinema di genere degli anni ’70 e grande amico di Luc. Che abbiamo raggiunto e intervistato in esclusiva per The Hollywood Reporter Roma. 

Luc, che effetto le fa questo Nastro d’argento?

Non ho mai ricevuto tanti premi: sono sempre stato un solitario, un selvatico, lontano dalle celebrazioni, dalla mondanità. Arrivo quasi vergine, al matrimonio con i premi. Ma, certo, mi emoziona. 

Che cosa è l’Italia per lei?

Appena sono arrivato a Roma, ho capito che era qui che volevo vivere. Mi sono innamorato del cibo italiano, della musica, dell’amore per la vita che c’è qui. E qui ho trovato anche l’amore.

Perché arrivò a Roma?

Un mio patrigno mi portò in vacanza a Roma. Era un po’ matto, aveva una barca di dodici metri, e pensava di arrivare a Roma per via fluviale. La gente, dalla riva, si sbracciava, faceva grandi segni. Io penso: ‘che simpatici, questi italiani che ci salutano!’. Invece volevano avvertirci che ci stavamo incagliando nel fondo basso del fiume. Il battesimo di Roma fu un po’ uno shock. Ma in quel 1966, in quella vacanza, arrivò un provino cinematografico. E la mia vita cambiò. 

Quali registi e produttori sono stati importanti per lei?

Sergio Martino e Fernando Di Leo più di tutti, geniale e colto; o Domenico Paolella. E un produttore geniale come Goffredo Lombardo della Titanus. Fra gli attori, mi viene in mente un uomo di grande classe, come Gabriele Ferzetti. O Valentina Cortese, o Paolo Villaggio, che aveva un’anima grande.

Fra i molti film che ha interpretato, quali porterebbe con sé, quali sceglierebbe fra tutti?

Forse Milano trema, la polizia vuole giustizia; Il poliziotto è marcio e La polizia accusa, il servizio segreto uccide. Ma anche film che erano commedie, come SuperFantozzi e Pompieri n.2.

Negli anni del terrorismo, qualcuno la identificò con un personaggio di destra. Ma lei come si sentiva?

Di politica io non capisco niente: mi interessa la filosofia, non la politica. Se mi chiedi se credo in qualcosa, ti rispondo: sono buddista. Mi piaceva solo un politico, ma come persona: Enrico Berlinguer. Io vivevo tranquillo, fregandomene della politica. 

Una certa sinistra vi aveva etichettato in un altro modo…

Diceva che eravamo fascisti, ma non lo eravamo. Prendevamo solo dei casi veri, e raccontavamo storie che accadevano. 

Era lontano anche dal clima arroventato di quegli anni?

Non ero neanche particolarmente rissoso: praticavo un’arte marziale, il savate, che mi rendeva tranquillissimo, perché sapevo di poter fare male anche con un dito. Mi sono calmato attraverso la disciplina degli sport di combattimento. E non ho mai più avuto scontri con altri, sapendo quanto è possibile uccidere. 

Una volta ha affrontato un campione mondiale di pugilato, Carlos Monzon, però.

Ah, quella è un’altra storia! Giravamo un film insieme, Il conto è chiuso. Lui era un indio selvaggio, con furiosi attacchi d’ira. Una notte sento delle grida nella stanza d’hotel accanto alla mia. E vedo uscire gridando una donna nuda, con dietro Carlos che la picchiava, come se fosse stato un punching ball. Per proteggerla, mi scagliai contro Monzon. Presi una sedia di paglia, con l’intenzione di tirargliela contro: ma era una sedia che pesava dieci grammi, Monzon mi avrebbe ucciso. Per fortuna poi si è calmato! Ma il giorno dopo, la ragazza aveva grandi occhiali neri e un enorme foulard che le copriva il viso. 

Ha lavorato con Alain Delon, Jacques Brel, Steve McQueen. Come li ricorda?

Alain Delon remoto, irraggiungibile. Brel straordinario, incantatore, affabulatore. Steve McQueen simpatico, ma credeva di guidare meglio di tutti: non era vero. Guidavo meglio io!

A un certo punto smise di accettare il personaggio del commissario…

All’ennesimo ruolo di poliziotto che mi offrirono, rifiutai e risposi: ‘Ma se fossi voluto entrare in Polizia, facevo domanda!’ E la smisi lì. 

Ha rifiutato anche il ruolo de “Er Monnezza”, che andò a Tomas Milian.

Non ero adatto: non era un personaggio giusto per me. Fui io stesso a suggerire ai produttori Tomas Milian. Glielo dissi molte volte, dopo: avrebbero dovuto darmi delle royalties, perché rifiutando ho fatto guadagnare ai produttori un sacco di soldi!

I suoi film hanno incassato moltissimo. Che rapporto ha con il denaro? 

Non ho mai avuto un rapporto con il denaro! Quando guadagnavo molto, offrivo a tutti, e ho aiutato chi stava peggio di me. Ho viaggiato, ho vissuto. Non mi è mai interessato essere ricco, ma vivere. 

Quale ruolo vorrebbe interpretare oggi?

Mi basterebbe una piccola parte: basta che non mi chiedano di fare il nonno o il bisnonno! Mi piacerebbe un film sentimentale: sentimentale, ma adatto alla mia età. Mi vengono in mente certi film recenti di Clint Eastwood, che da quando è sceso da cavallo è diventato un attore e un regista migliore.

Che cosa significa essere stato un divo degli anni ’70, quando il cinema era molto più centrale nella vita di tutti?

Ma io non sono mai stato un divo. Chi pensa di valere qualcosa, perché fa quattro smorfie davanti a una cinepresa, è uno scemo, sbaglia tutto. Non sei speciale, solo perché sei stato davanti a una macchina da presa. 

Però è stato, ed è, Luc Merenda. 

Avrei voluto essere Cary Grant, o Gary Cooper, o Spencer Tracy. Non ce l’ho fatta, sono stato Luc Merenda. Ma va bene così.