A pochi passi dalla sala in cui THR Roma incontra Enzo D’Alò a Cortinametraggio 2024, i registi e le registe che hanno preso parte al festival si stanno confrontando tra loro e con la stampa in quella che più che una conferenza diventa proprio un ricco dibattito. E serve anche questo per capire qual è stato il tenore e la tipologia di un festival “piccolo” ma intenso come quello fondato da Maddalena Mayneri, quest’anno giunto alla sua 19ª edizione (12-17 marzo 2024).
Enzo D’Alò a Cortina d’Ampezzo è stato un membro della giuria della sezione internazionale dei corti, dedicata agli Stati Uniti, ma prima di tutto – nei cinque giorni trascorsi sulle Dolomiti – è stato uno degli ospiti più ricercati dai registi, per consigli e confronti sul cinema e, in particolare, sull’animazione.
In qualità di giurato di una sezione internazionale, qual è secondo lei il valore aggiunto di Cortinametraggio nel panorama dei festival?
È molto bello che ci sia un confronto, in questo caso con i registi statunitensi. Ed è anche interessante capire il ragionamento che tutti i registi e le registe presenti hanno fatto a proposito della natura del cortometraggio. C’è chi lo intende come un piccolo film, altri invece – e io sono tra questi – lo intendono come un linguaggio diverso, di sintesi e di sperimentazione, un po’ più d’avanguardia. Ne ho visti esempi bellissimi durante il festival.
Poca animazione, però.
Poca, sì, perché qui parliamo soprattutto di corti italiani e in Italia poche persone si dedicano all’animazione. È difficile farla, da un punto di vista economico, mentre un corto in live action si può fare anche con pochi mezzi, solo con un’idea ben chiara in testa. L’animazione ha bisogno sempre di una piccola équipe e di un investimento iniziale che non tutti possono permettersi fuori dai canali tradizionali di una produzione o di un bando pubblico.
È anche di questo che ha parlato durante il festival con i registi e le registe?
Sì, essendo addetti ai lavori erano giustamente curiosi di sapere e capire come si realizza tecnicamente un film d’animazione. Vedo infatti che ancora la realizzazione è circondata da un alone magico, quasi di mistero, ma l’animazione è una tecnica, un modo per sperimentare un altro linguaggio, non un genere per bambini, come spesso si pensa.
Su questo Guillermo Del Toro ne ha fatto una “battaglia personale” lo scorso anno con Pinocchio.
Non personale, è una battaglia che portiamo avanti da diverso tempo e che per fortuna, Guillermo del Toro ha potuto rendere pubblica, raccontandola in mondovisione. Sono anni però che continuiamo a dire che l’animazione è un discorso, un linguaggio, un mezzo per raccontare una storia. È chi racconta poi a decidere se rivolgersi ad adulti o bambini. Ce lo dimostra il cinema animato orientale che ha aperto molte possibilità, ma che purtroppo vediamo quasi sempre solo ai festival. Film straordinari che in Italia rischiano di non arrivare mai.
Il cinema d’animazione orientale è quello che oggi rappresenta di più una generazione di registi e spettatori, secondo lei?
Sì, secondo me sì, proprio perché tratta determinati problemi. Dobbiamo cercare di abbandonare il cinema di puro intrattenimento e l’animazione come spettacolarizzazione del messaggio. È importante che sia l’analisi più o meno profonda di un malessere, di una situazione sociale, di un rapporto interpersonale. Il problema è che nell’animazione spesso si dà troppa attenzione alla tecnica e alla bellezza del disegno ma si perdono di vista i contenuti. Per questo nei miei film cerco un filo rosso che li leghi al di là della tecnica, perché credo che chi ha la possibilità di essere autore, oltre che regista, debba mettere soprattutto se stesso nei film. E che debba trasmettere dei contenuti, attraverso il contatto emotivo stabilito con il pubblico.
Un contenuto a cui spesso non si fa attenzione è la musica. Lei invece che è anche compositore, come mette in comunicazione musica e cinema nei suoi film?
Ho ormai smesso di suonare, per dedicarmi al cinema, ma spero sempre di poter riprendere prima o poi. Nei film cerco di spiegare ai compositori tutto all’inizio, addirittura consegno loro da leggere la sceneggiatura o, ancora prima, il libro da cui è tratta, in modo che le loro idee si impregnino il più possibile anche del percorso che ha fatto la storia nella sua trasformazione da libro a film. A quel punto comincio a chiedere brevi temi o a volte suggerisco io alcuni pezzi di musica dal mio archivio. Non mi piace la musica descrittiva. Vorrei sempre che un musicista mi raccontasse un personaggio come se la musica fosse un elemento tridimensionale di comprensione del personaggio o della situazione o dell’ambiente.
È per questo che ha fatto leggere a David Rhodes il libro da cui è tratto il suo ultimo film, Mary e lo spirito di mezzanotte?
Sì, in quel caso inoltre la mia intenzione era anche di giocare con la tradizione irlandese, contaminandola con il pop rock, e David Rhodes, chitarrista di Peter Gabriel da oltre 30 anni, è molto bravo in questo. Mary e lo spirito di mezzanotte è una storia contemporanea, non è una favola e volevo che si sentisse anche dalle musiche. Andando in Irlanda, si sente proprio il folk musicale per le strade o nei pub.
Il fatto che Mary e la spirito di mezzanotte sia arrivato agli Efa è stato sicuramente un buon segnale, una grande vetrina per l’animazione italiana.
È una vetrina, sì. È una vetrina internazionale, anche se poi in Italia non c’è tutta questa attenzione al cinema di animazione. Mi sento quasi una pecora nera. Ma neanche, perché la pecora nera comunque è qualcosa di dissacrante, che attira l’attenzione. Forse qui c’è sempre ancora l’idea che il film d’animazione sia un prodotto per bambini e questo presuppone i bambini abbiano bisogno di un messaggio semplice, altra convinzione assolutamente errata. Purtroppo il riconoscimento degli Efa si ferma lì e il problema in Italia diventa la distribuzione. In sala io sono stato incastrato fra Trolls e Prendi il volo, entrambi film con grandi lanci pubblicitari. Noi eravamo quasi sconosciuti e in pochi sapevano dell’uscita del film. In casi come questo ci si accorge quanto sia importante il ruolo del distributore, si pensi solo a ciò che è riuscita a fare Lucky Red con Il ragazzo e l’airone, anche se credo sia stata un’eccezione. Ci sono tanti “Miyazaki” che in Italia non arrivano nemmeno e purtroppo questo è un problema di moda.
Sono però contento del mio lavoro, perché ancora oggi quando lo presento – e lo sto continuando a fare – dà tantissime soddisfazioni. Le persone si emozionano e il pubblico pone domande bellissime, al di là dell’età. Dà la possibilità di discutere di temi importanti come l’amore, la perdita e il lutto.
Non è forse questo il compito che il cinema si prende, spesso, volentieri?
Sì, un compito importante. Il cinema è cultura e la cultura prevede – e deve rispondere – alle domande. La cosa sensazionale per me è che Mary e lo spirito di mezzanotte è andato davvero in giro per il mondo. Dopo Berlino siamo stati a Shanghai, in Israele, in Egitto, abbiamo vinto il primo premio al Festival di Chicago per il cinema dell’animazione, quindi abbiamo dimostrato in qualche modo che è un film che è comprensibile a tutti. Ti fa capire che hai centrato il tuo obiettivo. E poi pazienza se poi, quando torno in Italia, tutti pensano che io abbia fatto un film “concettuale”, perché è questo che si crede quando si partecipa ai festival. Io cerco di raccontare delle storie che siano comprensibili a un pubblico ampio e per farlo bisogna anche accettare compromessi “artistici”, rinunciando a una grafica troppo difficile o a una musica troppo intellettuale. Non possiamo fare film solo per noi stessi, l’obiettivo di un regista è condividerli con un pubblico, discuterli insieme.
Terminato il tour di Mary e lo spirito di mezzanotte, pensa già al prossimo progetto? In una precedente intervista a THR Roma aveva detto di volersi cimentare in un film diverso dall’animazione.
Sì, ma non si è ancora evoluto niente da quel punto di vista. Sto però cercando gli investimenti per un nuovo film d’animazione, una storia africana, di un viaggio attraverso il deserto, tratta dal libro che ho scritto con Pierdomenico Baccalario e Gaston Kaboré, Il principe della Città di sabbia. Abbiamo fatto la stessa cosa che era già accaduta con Opopomoz, cioè per tutelare la storia abbiamo scritto il romanzo già pensando di farne un film e, adesso, dal libro il racconto torna a essere una sceneggiatura. L’abbiamo già scritta e speriamo di poter partire con il film a ottobre.
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