Girls just wanna have fun. Lo cantava nel 1983 una sgargiante ed innovativa Cyndi Lauper. Ne rivendicava il diritto e lo faceva anche sfruttando la sua voce per gli ultimi, i dimenticati. Quelli che la regista Alison Ellwood – tra le documentariste musicali più promettenti degli ultimi anni, autrice del docufilm sulla cantante, Let the canary sing, presentato il 23 febbraio in anteprima nazionale al Seeyousound Festival – definisce “underdogs”. Si indirizzava ad una comunità LGBTQIA+ ancora poco compatta e cantava per i malati di Aids nel pieno dello stigma, prima ancora che la sensibilizzazione di certe tematiche diventasse una tendenza diffusa.
Nel pieno degli scaldamuscoli e delle calze fluo degli anni Ottanta seppe costituire un genere nuovo, facendo capire che “ci si può divertire ed essere femministe allo stesso tempo”. Let the canary sing racconta la donna e di pari passo il fenomeno, noto a tutti ma approfondito da pochi. Di un’artista che portando sulle spalle l’esempio delle suffraggette e dei miti femminili della storia della musica – prima tra tutte Janis Joplin – riuscì a distaccarsene per dare vita ad un pop scanzonato, tanto orecchiabile quanto immediato, capace di parlare a tutti, soprattutto a chi, fino ad allora, una voce non l’aveva mai avuta.
Qual era il suo rapporto con Cyndi e la sua musica prima di realizzare il documentario?
Sono sempre stata una sua grande fan, già dagli anni Ottanta, ben prima anche solo di pensare ad un documentario. L’idea mi è venuta mentre eravamo al Sundance, per presentare il film sulle Go-Go’s. Belinda Carlisle mi ha suggerito di contattare Cyndi per fare un docufilm su di lei: ci è voluto circa un anno per convincerla, ma poi ha finalmente accettato e abbiamo lavorato assieme alla realizzazione.
Perché lei e non chiunque altro? Cosa contraddistingue Cyndi Lauper dagli altri grandi artisti degli anni Ottanta?
Ogni artista è unico, ma credo che Cyndi sia portatrice di un forte messaggio di emancipazione, specialmente per le donne e per la comunità LGBTQIA+. È stata una sorta di avvocato dei diritti umani nel suo percorso. Ha sempre combattuto affinché tutti fossero trattati in maniera dignitosa, e l’ammirazione che nutro nei suoi confronti è qualcosa di nato ben prima della lavorazione di Let the canary sing. La sua musica risulta attuale tutt’oggi, perché continua a portare un messaggio di lotta per i più deboli, per gli sfavoriti.
Potremmo dire che ha dato vita ad una nuova ondata di femminismo nel mondo della musica?
Assolutamente sì. Negli anni Ottanta c’è stata una sorta di contraccolpo del femminismo, come in risposta a tutte le proteste delle suffragette negli anni Sessanta e Settanta. Lei ha saputo rispondere a questo scontro generale dicendo “la mia voce ora sarà più forte che mai. Ho bisogno di essere ascoltata, abbiamo bisogno di essere ascoltate. Possiamo divertirci ed essere femministe allo stesso tempo”.
Non pensa abbia dato una scossa anche all’immaginario generale delle donne nel business musicale?
Certamente, è stato proprio questo il suo forte. Si è sempre messa contro ciò che le etichette e le case discografiche volevano e progettavano per lei.
Nel documentario Cyndi dice: “Non mi importava cosa pensasse la gente”. Crede che questa attitudine possa essere stata alla base del suo successo?
Quando Cyndi ha cominciato ad avere successo, era all’inizio dei suoi trent’anni. Non era una ventenne, non era stata risucchiata nel solito limbo di sesso, droga e rock n’roll. Era già una ragazza matura, sapeva ciò che voleva, ciò che poteva fare della sua voce e l’impatto che poteva avere. D’altronde, quando negli anni Ottanta tutti facevano festa, sommersi dalla cocaina, lei era lì a fare l’aerosol per proteggere le sue corde vocali (ride, ndr).
Come è stato lavorare con Lauper?
Lei ha una visione ben nitida riguardo ogni cosa, sa esattamente cosa vuole. Mi ha sempre detto la sua su ciò che le proponevo, e quando le ho presentato dei bozzetti su delle animazioni che avevo ideato, mi è stata molto di sostegno. Ha approvato il film facendomi veramente pochi appunti. È stato un vero piacere lavorare insieme.
Il documentario è interessante già a partire dal titolo che ha scelto: Let the canary sing.
Il primo manager di Cyndi non voleva che iniziasse un percorso da solista, dopo gli anni nelle Blue Angel. Per questo motivo lei l’ha citato in giudizio e durante il processo il giudice avrebbe detto “Let the canary sing”. Quando lei mi ha raccontato questa storia, ho pensato che quello fosse assolutamente il titolo perfetto.
Ne La notte che ha cambiato il pop, Lauper è protagonista di una delle scene più divertenti. Si trova a registrare più volte la sua strofa a causa del rumore dei braccialetti e delle collane che indossava. Ha avuto occasione di vedere il documentario?
Purtroppo non ho ancora avuto l’occasione di vederlo, ma avevamo pensato di mettere quella scena ad un certo punto del nostro film. Tuttavia era necessario fare dei tagli dal materiale accumulato e dal girato, però sono felice che almeno quella scena sia finita in We are the world.
Come è possibile che le giovani generazioni considerino Girls just wanna have fun ancora un inno, anche a quarant’anni dalla sua pubblicazione?
È divertente, perché quella canzone è stata scritta da Robert Hazard, e la sua interpretazione iniziale era vittima di uno sguardo tutto maschile. Cyndi l’ha rifatta dandole una prospettiva femminile, parlando a tutte le donne del mondo, spiegando loro che è possibile divertirsi e sentirsi incluse. Nel video c’erano ragazze di tutte le etnie, di tutte le corporature. Credo che lei sia davvero stata in grado di abbracciare il medium musicale per far arrivare a pieno i suoi concetti a chi l’ascoltava.
Questa non è la prima volta per lei come regista di documentari musicali. In base a cosa decide quali artisti rappresentare?
Mi piace essere una fan della musica che racconto, perché credo che aiuti ai fini della narrazione. Nel caso delle Go-Go’s (protagoniste del docufilm omonimo di Ellwood, ndr), però, è andata diversamente. Non sono mai stata una grande fan della musica punk, perciò in quell’occasione è stato davvero affascinante capire come si è creato il loro gruppo, come è nato il fenomeno. L’unico criterio che uso per scegliere, però, è la musica. Se c’è una storia interessante da raccontare, è sempre affascinante farlo.
A un certo punto del film, Cyndi dice: “Se fai ciò che ami, senti automaticamente la magia”. Pensa che la musica e i documentari siano due modi diversi di fare arte uniti dalla una stessa vocazione?
La musica è per me un linguaggio universale. Le canzoni evocano ricordi e sentimenti come nient’altro al mondo, è ciò che amo di più riguardo il mio mestiere. Le persone possono continuamente rivedersi, relazionarsi in prima persona con ciò che guardano e ascoltano. Ci sono parti della vita di milioni di persone in una sola canzone, anche se questa ovviamente non è scritta per loro.
Dunque, percepisce anche lei questa magia nel dirigere i suoi documentari?
Assolutamente sì. È difficile avere una struttura salda e che sia più interessante di un racconto cronologico, e alcune delle canzoni che Cyndi ha scritto negli ultimi tempi riguardano direttamente anche la sua infanzia, quindi abbiamo usato la musica in questo senso anche come espediente narrativo per raccontare la sua vita da più giovane. Se non è magia questa…
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