
La scena è nuda. La luce è la vera protagonista, una luce che interroga e acceca, che si fa emiciclo, tempio, condanna. Non c’è spazio per il superfluo nell’Edipo Re di Andrea De Rosa, non c’è nulla che non sia necessario. Gli attori si muovono in uno spazio rigoroso, sorvegliato, scandito da una partitura visiva che amplifica il senso della tragedia: tutto è già avvenuto, tutto è già scritto.
Edipo interroga, indaga, si affanna: ma la risposta è sempre stata lì, davanti a lui, negli occhi di Tiresia, nel riverbero delle parole del Coro, nelle ombre che si allungano sui pannelli dorati.

“Edipo Re” di Andrea De Rosa. Photocredit Andrea Macchia
Si potrebbe dire che il testo di Sofocle viene qui restituito nella sua forma più pura, ma sarebbe un errore. Il lavoro di traduzione e riscrittura di Fabrizio Sinisi opera come un bisturi, rivelando un nervo scoperto che pulsa sotto la parola teatrale. Non c’è niente di classico, se per classico intendiamo cristallizzato, accademico, imbalsamato. Questo Edipo vive del suo stesso sgomento, della sua stessa rovina. Il linguaggio si fa rito, la tragedia si fa presenza: e nel vuoto della scena, nel riverbero delle luci di Pasquale Mari, è come se un dio ci stesse osservando.

“Edipo Re” di Andrea De Rosa. Photocredit Andrea Macchia
Il regista torna a un dialogo interrotto con la tragedia greca, dopo Le Baccanti. Lì era Dioniso, qui è Apollo. Ma se Dioniso si manifesta nell’ebbrezza, nell’eccesso, nella perdita di sé, Apollo si insinua nel non detto, nel fraintendimento, nell’indecifrabile. Roberto Latini incarna Tiresia e tutti i messaggeri: la sua voce non è mai neutra, mai semplice strumento di narrazione. È il respiro della tragedia, è l’eco di un dio che si nasconde nelle pieghe del linguaggio. Marco Foschi, nei panni di Edipo, raccoglie nella spina dorsale, negli arti e nelle coloriture vocali la sofferenza necessaria a fare dell’attore la cassa di risonanza di un atavico dolore condiviso e piega il corpo (sempre teso) ai pesi di responsabilità del re, del figlio e del traditore. Frédérique Loliée, Giocasta, si muove con l’eleganza di un’ombra tragica, oscillando tra amore e orrore, tra la protezione materna e il rifiuto di una verità troppo grande. Fabio Pasquini costruisce un Creonte ambiguo e insinuante, figura di potere in divenire, mentre Francesca Cutolo e Francesca Della Monica danno voce al coro di Tebe, il controcanto doloroso e partecipe della tragedia.

“Edipo Re” di Andrea De Rosa. Photocredit Andrea Macchia
Ogni elemento si dispone con esattezza chirurgica. Il suono di G.U.P. Alcaro è una pulsazione sorda, un richiamo ancestrale. I costumi di Graziella Pepe, logori, decadenti, scivolano sui corpi come veli che si disfano con il tempo. Tutto converge verso la necessità della tragedia: Edipo non sceglie, Edipo non decide, Edipo è trascinato. La sua hybris non sta nell’aver voluto sfidare il destino, ma nell’aver creduto di poter comprendere.
Si potrebbe obiettare che la regia di De Rosa segua un disegno fin troppo netto, che rifiuti ogni ambiguità, ogni spiraglio di lettura alternativa. Ma la tragedia non ammette ambiguità: la verità è uno squarcio di luce, violento, definitivo. Nella sua corsa verso la rovina, Edipo si avvicina a noi, fino a diventare il riflesso della nostra stessa condizione. Siamo noi i testimoni di un evento già scritto, siamo noi gli spettatori chiamati a interrogarci sul nostro sguardo. Siamo noi a chiederci, ogni volta: cosa significa vedere? Cosa significa sapere? Cosa significa dire a qualcuno, senza poter più mentire: sei tu?
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