
Il New York Times, che ha contribuito ad accendere lo scontro mediatico tra Blake Lively e Justin Baldoni pubblicando un articolo su presunti comportamenti inappropriati durante le riprese di It Ends With Us, ha chiesto l’archiviazione di una causa per diffamazione che lo accusa di aver cospirato con il team di pubbliche relazioni dell’attrice per promuovere una narrazione distorta.
In una mozione depositata venerdì presso il tribunale federale di New York, il Times difende il proprio lavoro giornalistico, sostenendo che le dichiarazioni contestate da Baldoni siano veritiere e rappresentino una caratterizzazione equa degli eventi accaduti sul set del film.
“Attraverso la loro caotica denuncia, le parti di Wayfarer cercano di trascinare il Times nella loro più ampia disputa con Lively”, si legge nel documento depositato. “Ma l’unica cosa che il Times ha effettivamente fatto è raccogliere informazioni giornalistiche e pubblicare un articolo e un video sulla controversia tra Wayfarer e Lively”.
La causa di Baldoni ruota attorno all’articolo “We Can Bury Anyone: Inside a Hollywood Smear Machine“, scritto da Megan Twohey. L’inchiesta approfondisce una denuncia per molestie sessuali e ritorsioni sul posto di lavoro che Lively ha presentato al Dipartimento per i Diritti Civili della California e include comunicazioni interne tra Baldoni, la sua pubblicist Jennifer Abel e Melissa Nathan, una specialista in gestione delle crisi.
Il documento depositato dal Times illustra il lavoro investigativo di Twohey. Secondo quanto riportato, la giornalista ha contattato Baldoni e il suo team il 20 dicembre, invitandoli a rilasciare dichiarazioni ufficiali e a segnalare eventuali inesattezze nelle accuse mosse da Lively. Due ore dopo, Abel ha inviato a Twohey una smentita di 307 parole attribuita a Bryan Freedman, avvocato di Baldoni e della sua casa di produzione, Wayfarer.
Secondo il Times, nessuno ha chiesto ulteriori dettagli o più tempo per rispondere. L’articolo è stato pubblicato il giorno successivo, riportando ampi stralci della dichiarazione, con un link al testo completo. Baldoni ha contestato un’affermazione contenuta nel video allegato all’articolo, in cui si afferma che “gli uomini [Baldoni e Heath] … hanno assunto una specialista in gestione delle crisi [Nathan] che ha orchestrato una campagna diffamatoria contro Lively“, ritenendola diffamatoria.
In risposta, il Times sostiene di essere protetto dal “fair report privilege”, una norma che tutela i media dalla diffamazione quando riportano accuratamente documenti ufficiali. L’articolo, infatti, si basa sulla denuncia presentata al Dipartimento per i Diritti Civili della California e utilizza espressioni come “secondo una denuncia legale“ e “si afferma“ per descrivere le accuse mosse da Lively. “L’articolo cita ampiamente messaggi e email tra Baldoni, Heath, Nathan e Abel che sono riportati nella denuncia del CRD”, si legge nel documento.
Nella sua causa, Baldoni ha contestato il fatto che il Times abbia ricevuto una copia della denuncia di Lively prima della sua ufficializzazione e abbia omesso di indagare sulle sue accuse. Ha inoltre affermato che l’articolo avrebbe dovuto includere le ragioni per cui Nathan era stata assunta per “seppellire“ Lively.
“Nella sua mozione per l’archiviazione, il New York Times smaschera correttamente la causa di Justin Baldoni per quello che è: un documento di pubbliche relazioni senza alcun fondamento giuridico”, ha dichiarato un portavoce di Lively in una nota. “Per anni, Baldoni ha esortato gli uomini ad ascoltare e credere alle donne. Ma quando una donna ha parlato del suo comportamento, lui e il suo finanziatore miliardario Steve Sorowitz hanno utilizzato un “piano di guerra sui social media” per distruggerla e cercare di “seppellirla” insieme ai media che ne parlavano. Queste tattiche intimidatorie non reggeranno in tribunale, e tutti dovrebbero riconoscere l’infondatezza di queste accuse”.
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